“Viaggio d’inverno” alla Scala con Matthias Goerne

Milano, Teatro alla Scala – Recital di canto 2012/2013
Baritono Matthias Goerne
Pianoforte Eric Schneider 
Franz Schubert: “Winterreise”, op. 89 D 911 (Viaggio d’inverno)
Ciclo liederistico su liriche di Wilhelm Müller
Milano, 5 aprile 2013 

«Fremd bin ich eingezogen, / Fremd zieh’ ich wieder aus» (Come un estraneo sono comparso, / come un estraneo me ne vado). L’attacco di Gute Nacht, il primo dei ventiquattro Lieder che formano il ciclo della Winterreise, potrebbe definire personalità vocale e professionalità artistica di Matthias Goerne, il baritono tedesco che ha incantato la Scala con un’esecuzione di eccezionale intensità, per un’ora e venti minuti di musica schubertiana eseguita senza alcuna cesura. Serietà e sobrietà caratterizzano questo cantante in ogni suo atteggiamento esteriore, poiché tutta l’attenzione è rivolta al testo e alle innumerevoli suggestioni espressive.
Il pubblico, da subito attentissimo e rapito dal carisma interpretativo, resta quasi interdetto alla fine del primo Lied, cantato interamente sottovoce, con immagini notturne di neve e di luna offerte in un lento sussurrare. Ma poco dopo il tipo di emissione muta completamente: in 3. Gefrorne Tränen (Lacrime di ghiaccio) l’apostrofe al pianto è intensa e marcata, su robuste note basse; Goerne dimostra non solo la capacità di trascorrere da un piano sonoro a un altro, ma anche l’abilità di accostare alla delicatezza quella veemenza che la disperazione richiede. In 4. Erstarrung (Congelamento) è invece la musica a vincere il male, perché il canto legato e una dolcissima cantabilità prevalgono sulle immagini di gelo e di pellegrinaggio notturno; e non si tratta di un tradimento del testo, poiché il viandante ripensa ai passi dell’amata sulla terra ora ricoperta, e alla terra vorrebbe appunto tornare (Voglio baciare il suolo, / perforare con lacrime bollenti / la crosta di ghiaccio e neve, / finché non trovo la terra, dice alla seconda strofe, nella bella traduzione di Pietro Soresina acclusa al programma di sala). Sono dunque sufficienti i primi quattro Lieder per rivelare appieno la voce dell’esecutore, di autentico baritono, brunita, omogenea, salda nei centri e nelle note basse; forse alcuni acuti risultano un po’ scabri, e la voce è appena sbiancata rispetto al resto della tessitura, ma non è detto che non sia effetto voluto. Nella formazione di Goerne si percepisce soprattutto la lezione di Dietrich Fischer-Dieskau, maestro nella capacità di modulare e variare il colore della voce a seconda dell’altezza del suono; e Fischer-Dieskau è certamente il modello cui Goerne guarda, come lasciano intendere la ricerca di colori scuri nella seconda strofe di 5. Der Lindenbaum (Il tiglio) e l’espressione del senso di pace non tanto con la parola Ruhe, ma con le note acute e alleggerite del verbo fändest nel finale dello stesso brano («Du Fändest Ruhe dort», Là troveresti la pace!). Sarebbe però sbagliato limitarsi a dire che Goerne imita il suo maestro, perché lo studio del testo musicale è accuratissimo, personale, autonomo; piuttosto, si deve parlare di omaggio al maestro, e allora i segnali riconoscibili dell’arte di Fischer-Dieskau acquistano il valore di un doveroso tributo.
Nel singolo Lied Goerne costruisce la sua interpretazione a partire dalla strofe, intesa come piccolo mondo a sé; solitamente avvia l’enunciazione dei primi versi con voce scura, anche con emissione schiacciata verso il basso, per poi aprirla nell’acuto o nella frase disperata: è una tecnica “luministica” applicata alla parola poetica, che determina un effetto di illuminazione progressiva del canto, segmento per segmento (dal buio del dolore e della notte alla luce gelida della neve e della luna in 6. Wasserflut, Flutti d’acqua, in 7. Auf dem Flusse, Sul fiume, e in particolare in 8. Rückblick, Uno sguardo indietro, e in 11. Frühlingstraum, Sogno di primavera, in cui l’alternanza di piani sonori molto diversi genera un forte contrasto espressivo). A volte gli acuti di Goerne appaiono opachi, come non sostenuti da sufficiente fiato (nel finale di 12. Einsamkeit, Solitudine, e di 13. Die Post, La posta). Ma questo accade esclusivamente quando la nota è emessa a piena voce; quando invece si tratta di alleggerire il suono, anche in acuto, la tecnica del baritono è perfetta.
Il pianoforte di Eric Schneider accompagna Goerne con delicata naturalezza: l’intesa tra i due artisti è perfetta nei Lieder dall’intonazione pacata ed elegiaca, più che in quelli agitati, di stile Sturm und Drang (come nel magnifico 17. Im Dorfe, In paese, con gli effetti imitativi dell’abbaiare dei cani, ostili al viandante che passa). Ma va riconosciuto che lo stesso cantante offre il meglio delle sue virtù interpretative nei toni flebili e attenuati; uno dei momenti di più felice connubio tra i due musicisti è pertanto 19. Täuschung, Illusione, sorretto da un passo di danza dello strumento, come le parole d’avvio lasciano presagire («Ein Licht tanzt freundlich vor mir her», Una luce danza lietamente davanti a me).
Un vero miracolo vocale interviene alla fine del ciclo, con l’esecuzione di 21. Das Wirtshaus, L’osteria, e di 24. Der Leiermann, L’uomo dell’organetto: nel primo è quasi una sfida di dilatazione del tempo, perché il canto, come un fluido ipnotico, comincia sottovoce e si dispiega gradatamente, fino a raggiungere il forte finale, ma senza accelerazione ritmica; il tempo di incredibile lentezza traduce l’inesorabile tensione alla «crudele taverna», che è il cimitero dove il pellegrino è giunto. Neppure lì, però, egli può trovare pace; e allora spicca il contrasto tra l’immobilità musicale e la frantumazione delle singole parole del n. 21 e il nervosismo della piccola ballata successiva (22. Mut, Coraggio). In essa, per la prima volta, il baritono rimarca le sillabe, eccede nelle allitterazioni, come soltanto un esaltato può fare mentre parla con gioia feroce («Sind wir selber Götter», noi stessi siamo dèi!, si dice nel verso conclusivo): ed è questa l’unica deroga, necessaria nella sua momentanea trivialità, rispetto all’eleganza elegiaca di tutti gli altri Lieder). L’effetto meta-musicale dell’ultima pagina, basato sulla ripetizione di una triste melodia popolare, rinnova gli eccezionali effetti del n. 21: in un tempo incredibilmente dilatato Goerne, ormai del tutto trasfigurato nella voce del viandante, giunge al termine del viaggio invernale, e incontra finalmente una persona, un uomo con il suo organetto, impassibile all’abbaiare dei cani, al freddo e all’indifferenza del mondo; continua a girare la manovella, e l’organetto mai non tace («und seine Leier steht ihm nimmer still»). È l’ineffabile apparizione della Musica, l’unica dimensione alla quale Schubert affida la conclusione del suo ciclo, l’unica risposta alle sofferenze dell’esistenza, e alla quale lo stesso Goerne pone la sua ultima domanda in pianissimo: «Willst zu meinen Liedern deine Leier dreh’n?», Accompagneresti i miei canti col tuo organetto?
Al finale sospeso dell’interrogazione seguono immediati gli applausi di un pubblico commosso, partecipe come raramente accade di riscontrare; e Goerne stesso fatica a riscuotersi dall’immedesimazione in cui si è calato, stordito dal rumore crescente di approvazione, visibilmente sconvolto in tutta la persona. È ora l’artista che nella sua solitudine sente profondamente il ruolo di “segnale stradale” (20. Der Wegweister) che la sorte gli ha imposto in relazione agli uomini; non ha pace, ma la cerca per offrirla a sé e agli altri, come si legge nella poesia di Müller: «Lungo le vie si levano segnali, guidano verso le città; ed io mi dirigo altrove senza pace, ma cerco pace». Foto Brescia & Amisano per Teatro alla Scala