Bologna, Teatro Comunale: “Il trionfo di Clelia”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione lirica 2013
“IL TRIONFO DI CLELIA”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Pietro Metastasio
Musica di Christoph Willibald Gluck
Clelia MARIA GRAZIA SCHIAVO
Orazio MARY-ELLEN NESI
Larissa BURCU UYAR
Tarquinio IRINI KARAIANNI
Porsenna VASSILIS KAVAYAS
Mannio DAICHI FUJIKI
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Giuseppe Sigismondi De Risio
Regia e scene Nigel Lowery
Costumi Monica Benini
Luci George Tellos
Allestimento originale di Et in Arcadia ego nella nuova edizione celebrativa per il 250° dall’inaugurazione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 22 maggio 2013

Quando nella notte del 19 febbraio 1745 un incendio distrusse il Teatro Malvezzi, uno degli spazi più importanti per il melodramma allora attive nella città di Bologna (a fianco del Teatro Formagliari e del Teatro della Sala), la città decise di costruire con fondi pubblici un nuovo teatro a poca distanza dal precendente, sull’area denominata “Guasto”, così chiamato perché vi rimanevano le rovine del palazzo dei Bentivoglio, demolito dai bolognesi inferociti nel lontano 1507. Il progetto fu affidato, non senza le solite polemiche dei colleghi invidiosi, ad Antonio Galli Bibiena, proveniente dalla famosissima famiglia di architetti e scenografi bolognesi. Dopo una serie di italianissime controversie durate 18 anni, finalmente il 14 maggio 1763 la città poteva finalmente inaugurare con grande sfarzo la bellissima sala del Teatro Comunale, un originale progetto con pianta a campana e palchi in muratura su un alto zoccolo di pietre bugnate, molto bello ma non eccessivamente pratico, allora come oggi, sia per l’acustica che per la visibilità.
Per l’occasione Bologna “la dotta” volle invitare un compositore della corte di Vienna, Christoph Willibald Gluck, un autore “all’avanguardia” che aveva destato sensazione in tutta Europa l’anno precedente con il suo Orfeo ed Euridice riformatore, privo di recitativi secchi, privo di arie col da capo piene di coloratura, ricco di cori e di danze integrate nell’azione. Ma naturalmente il direttore del comitato dei nobili cittadini, il conte Luigi Bevilacqua Ariosti, non era minimamente interessato a rischiare un insuccesso con un lavoro sperimentale del genere e optò per la sicura garanzia di un libretto di Metastasio. Se Metastasio doveva essere, Gluck richiese di poter musicare la fortunatissima Olimpiade, storia di amicizie e di amori che da trent’anni aveva sollecitato alcune delle più belle arie da parte dei più grandi compositori (Caldara, Pergolesi, Leo, Galuppi, Hasse, Traetta, Jommelli…) e che avrebbe poi continuato a farlo ancora per più di venti o trent’anni. Ma il conte Bevilacqua voleva un soggetto che desse modo al Galli Bibiena di esibire la sua scienza scenografica e impose questo Trionfo di Clelia che Metastasio aveva confezionato per la corte di Vienna l’anno precedente, per la musica di Hasse. Quale occasione migliore infatti di un’opera eroica nella quale si può vedere in scena la famosa battaglia di Orazio Coclite contro gli Etruschi sul Ponte Sublicio e il conseguente incendio e crollo? Poco importava che il libretto fosse un intreccio piuttosto improbabile e assai noioso, che, soprattutto, non forniva al compositori sentimenti credibili o interessanti per le arie introspettive da affidare ai solisti. In questo dramma l’eroica Clelia, che riuscì eroicamente a fuggire attraversando il Tevere a nuoto o su un cavallo dal campo degli Etruschi di cui era ostaggio, risulta essere la fidanzata dell’eroico Orazio (non più “Coclite”, cioè guercio, per decenza teatrale), le cui gesta ognuno conosce. La sua virtù però è insidiata da uno dei Tarquinii, che dopo la cacciata da Roma si erano alleati con gli Etruschi di Porsenna contro Roma. (Non è ben chiaro chi dovrebbe poi essere precisamente questo Tarquinio. Si potrebbe pensare che si tratti di Sesto, quello che stuprò la casta Lucrezia, ma dal momento che una delle sue prime battute è “Ah, Sesto io non son!” conviene pensare che si tratti piuttosto di un suo oscuro fratello, sempre figlio di Tarquinio il Superbo.) Per completare la lista dei personaggi e fornire qualche intrigo romantico in più Metastasio inventa un’altra coppia formata da una tal Larissa, figlia di Porsenna e promessa a Tarquinio, e da un tal Mannio, principe dei Veienti, del quale Larissa è segretamente innamorata. A parte la fuga di Clelia e la battaglia sul ponte Sublicio, non succede granché per tutti e tre gli atti: i personaggi, per lo più, o pontificano eroicamente o vorrebbero – oh Dio! – spiegarsi ma non ci riescono per un qualche accidente. Alla fine, seguendo le fonti romane antiche, anche qui l’assediatore Porsenna è conquistato dalle prove di eroismo di Orazio e Clelia e Muzio Scevola (che però qui viene solo nominato e non compare mai) e decide, in maniera del tutto incomprensibile, di troncare l’alleanza coi Tarquinii e lasciar perdere la conquista di Roma. Nessuno era convinto da questo libretto, men che meno il conte Bevilacqua che in una lettera ad un altro membro del comitato bolognese (riportata nel divertente programma di sala curato da Carlo Vitali) così scriveva: “Nella proposta fatta da esso [Gluck] dell’Olimpiade, veggo che egli non ha avuto riflesso che a propor ciò che potrebbe contentare lui solo, senza pensare che bisogna, sempre che si fa un’opera, procurare di soddisfare a tutti. So che difficilmente riuscirebbe del dì d’oggi, e massime in occasione dell’apertura di un Teatro, se si facesse un’opera che non ammettesse qualche bella decorazione, come sarebbe appunto l’Olimpiade, che non ne ammette direi quasi di sorta. Presentemente più si apprezzano comunemente tali decorazioni che non la sostanza del Libro e la vaghezza della Musica, e credo esserne la ragione che tutti hanno occhi per vedere, ma pochi orecchio fino per gustare la musica, e pochissimi poi talento per capire la condotta del libro, l’arte di chi l’ha composto e l’amenità dello scrivere. Motivi che hanno qui noi determinati alla scelta di questo, sebbene già fatti accorti che non era, nè è certamente della bellezza e vaghezza di tant’altri composti da cotesto signor Metastasio” (Bologna, 16 ottobre 1762)
Per parte sua Gluck cercò di spuntare il prezzo più alto possibile e di rimanere a Bologna lo stretto indispensabile, ripartendo dopo la terza recita. Quanto alla musica, in assenza di una drammaturgia interessante compì professionalmente il proprio lavoro componendo quello che era richiesto dalla situazione: una sequela di 18 arie e un duetto, alcune delle quali di grandi virtuosismo e tutte parimenti piacevoli e interessanti se considerate in sé stesse (ad esempio nel contesto di un recital), inframmezzati da lunghi recitativi secchi e da alcuni recitativi accompagnati (molto belli) e chiusi da un coretto di poche battute cantato da tutti i solisti. Tutto realizzato con ottimo gusto ma senza una grande ispirazione melodica. Gli unici momenti di vero interesse di quest’opera sono appunto le due scene d’azione in cui Gluck potè adottare forme più aperte, prescritte dallo stesso libretto metastasiano: la battaglia sul ponte (una brillante marcia strumentale interrotta da recitativi obbligati di Orazio) e il drammatico recitativo accompagnato (non seguito da un’aria, per ovvi motivi) nel quale Clelia progetta la fuga attraverso il Tevere in piena.
Alla fine – come era prevedibilie – il pubblico, attirato più che altro dall’evento mondano dell’inaugurazione in sé, decretò un trionfo alle meraviglie scenografiche del Bibiena e, nonostante l’ottimo cast vocale che annoverava come primo uomo (Orazio) il celebre castrato Giacomo Manzoli, rimase piuttosto freddo alla musica di Gluck, tanto che alcuni, secondo la testimonianza del padre gesuita Alfonso di Maniago, la paragonarono addirittura “ad un Offizio da morto da cantarsi in Chiesa”. Sempre il Maniago riporta questa amena strofetta, che qualcuno compose per l’occasione:
Dman el part el Cluch:
El va per Triest;
Ch’al faga ben prest,
Perché al è un gran Mamaluch.
Da allora l’opera cadde nell’oblio, salvo autoimprestiti di Gluck che fecero ricomparire talune melodie nella seconda versione dell’Ezio e nell’Iphigénie en Aulide, e fu vista dagli studiosi, con ogni ragione, come un passo indietro nel percorso artistico dell’autore, compiuto per ragioni meramente economiche. Nel 2001 il Teatro di Lugo ne mise in scena una versione molto tagliata in cui il ruolo del titolo fu affidato a Stefania Donzelli e i ruoli di Orazio e di Mannio incomprensibilmente trasposti per tenore e baritono, una pratica che nel mondo civile era stata abbandonata negli anni ’50 del secolo scorso.
Per festeggiare i 250 anni da quell’inaugurazione il Teatro Comunale ha deciso di porre in scena nuovamente questa opera inaugurale, compiendo un’operazione analoga a quella dell’Europa Riconosciuta di Salieri per la Scala. Ma, con una tipica mentalità emiliana di voler fare le nozze coi fichi secchi, non è stato chiamato Rousset o Minkowski o Dantone ma ci si è affidati a uno spettacolo montato ad Atene nel 2012 e registrato per la “la nota [così almeno sostiene il programma di sala del Comunale] etichetta tedesca MDG“, diretto dallo sconosciuto Giuseppe Sigismondi de Risio. Il suo curriculum ce lo descrive come “particolarmente versato soprattutto nel repertorio del periodo che va dal romanticismo in poi, ha raccolto critiche entusiaste per la profondità e sensibilità della sua interpretazione, rigorosa e al contempo personale” (scordandosi purtroppo di menzionare dove abbia raccolto queste critiche entusiaste). Nessun particolare studio sulla prassi esecutiva settecentesca è menzionato e nemmeno è emerso all’ascolto della sua direzione dell’opera di Gluck con l’Orchestra del Teatro Comunale, piuttosto fiacca. A onor del vero bisogna però dire che l’edizione discografica che ha inciso con l’orchestra barocca Armonia Atenea è un tantino più brillante. In entrambe le esecuzioni si può comunque lodare la presenza di tutte le appoggiature necessarie e la proprietà stilistica delle cadenze, nonché l’assennatezza degli indispensabili tagli operati su recitativi e sulle arie (di alcune delle quali è stata eseguita solo la parte A, tagliando – come è giusto – l’intera parte B e la ripresa, senza macchiarsi dell’orrendo crimine di eseguire una parte B senza riprendere poi la parte A o magari riprendendo solo l’introduzione strumentale, come ancora qualche criminale si ostina a fare).
Il cast vocale proveniente dall’edizione greca era generalmente solido (e con una pronuncia accettabile) ed aveva il suo nome più noto in Mary-Ellen Nesi (Orazio), mezzosoprano greco dedito alla musica barocca, dal timbro corposo e dalla tecnica ortodossa. Parimente corrette le altre due donne, il soprano turco lirico-leggero Burcu Uyar nel ruolo di Larissa e il mezzosoprano leggero greco Irini Karaianni nel ruolo di “cattivo” Tarquinio (che avrebbe forse richiesto un carisma e una presenza vocale maggiore). Si tratta di tre belle voci e se mi è impossibile scaldarmi di più alla loro interpretazione la colpa è proabilmente più da imputare all’impressione di scipitezza che ha su di me la drammaturgia musicale di Metastasio e Gluck. Vera pecora nera della compagnia è stato invece il tenore Vassilis Kavayas che riesce a fare quasi tutte le note richieste dal ruolo (e sono parecchie), ma con un timbro che, se in disco è tollerabile, dal vivo si rivela insopportabilmente “belante”. Nel piccolo ruolo di Mannio, che ha un’unica facile aria, il disco aveva il falsettista rumeno Florin Cezar Ouatu. Ma da quando è diventato una star dell’operatic pop rumeno e il nuovo fidanzato di Angela Gheorghiu (!) le sue priorità artistiche sono probabilmente cambiate e il Comunale ha ingaggiato in sua vece il giapponese Daichi Fujiki, sufficientemente corretto. Nell’impervio ruolo del titolo, che nell’edizione discografica era stato affidato a Hélène Le Corre (brava), il Comunale ha deciso invece di scritturare un nome celebre italiano, Maria Grazia Schiavo, che ha fatto onore alla sua fama e alle colorature e ai drammatici recitativi di Gluck, senza però riuscire nemmeno lei a suscitare particolare sensazione nell’uditorio.
Il lato musicale sarebbe stato perfettamente accettabile, se non fosse stato completamente ucciso da una regia rende l’intreccio metastasiano ancora più noioso e incomprensibile di quanto già non sia e che, anche fra i tanti spettacoli orrendi che si vedono sulle nostre scene, segnala per la sua stupidità che definiremmo “parrocchiale” se non temessimo di insultare le parrocchie, caratterizzata da un deprimente tentativo di umorismo che svilisce Metastasio senza riuscire mai a strappare neanche un sorriso. Ad aggravare l’idiozia dell’approccio “teatrale” (per così dire) viene la bruttezza dell’impianto scenico, disegnato dallo stesso regista. Per motivi difficilmente comprensibili, il Comunale ha pensato che la situazione avrebbe potuto essere migliorata commissionando con scarso preavviso dei nuovi costumi a una giovane faentina, che inspiegabilmente ha ripensato i costumi vagamente Belle Époque o anni ’20 o anni ’40 del primo allestimento con tessuti colorati vagamente etnici, con il bel risultato che se ad Atene Tarquinio sembrava Arsenio Lupin, a Bologna è sembrato Arsenio Lupin in formato bambola di pezza. Come se non bastasse, il Comunale ha accordato al light designer solo poche ore per montare le luci e il risultato è stato semplicemente inguardabile. Se l’effetto ricercato era quello di annullare la profondità creando lo sgradevolissimo effetto piatto di un’illuminazione al neon e di illuminare i cantanti solo in casi fortuiti, il risultato è stato raggiunto in pieno. Mi permetto però di dubitarne. Imperdibile il curriculum del povero light designer pubblicato sul programma di sala, che il Comunale ha redatto secondo il metodo Dulcamara-Oscar Giannino ormai di tradizione: “è noto come light designer in tutto il mondo [ad esempio? l’universo e in altri siti?]: la sua attività spazia dalla sperimentazione artistica contemporanea (collabora con importanti nomi dell’arte figurativa di oggi [ad esempio? non è dato saperlo, comunque – fidatevi – sono importanti]) alle progettazioni di lighting su gradi spazi [ad esempio? non è dato saperlo, comunque – fidatevi – sono grandi]. Viene considerato [da chi?] uno dei maggiori artisti dell’illuminazione, ecc…”.
Inutile dire che il pubblico bolognese, anche e soprattutto quello degli abbonati, ha disertato le recite, di cui sono state previste ben sei repliche, che forse erano un po’ troppe per questo titolo realizzato con questi nomi. Non sta bene fare i conti in tasca agli altri, però l’impressione che si ricava è che l’intero allestimento sia costato una somma inferiore a quella necessaria a tenere aperto il Teatro per due sere…
Insomma, da questo resoconto delle circostanze che hanno reso poco trionfale la prima rappresentazione di questo Trionfo di Clelia e da quelle che hanno reso decisamente non trionfale questa riproposta, il lettore può vedere da sé che, in fin dei conti, sono passati 250 anni ma il Teatro Comunale di Bologna continua a rimanere fedele a sé stesso. P.V.Montanari