«Prediletti dalle stelle, / io vi lascio un gran tesoro»: “L’elisir d’amore” a Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“L’ELISIR D’AMORE”
Melodramma giocoso in due atti
Libretto di Felice Romani, da Le philtre di Eugène Scribe
Musica di Gaetano Donizetti
Adina  DÉSIRÉE RANCATORE
Nemorino  FRANCESCO MELI
Belcore  FABIO MARIA CAPITANUCCI
Dulcamara  NICOLA ULIVIERI
Giannetta  ANNIE ROSEN
Assistente di Dulcamara (mimo)  MARIO BRANCACCIO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Maestro al fortepiano Luca Brancaleon
Regia Fabio Sparvoli
Scene Saverio Santoliquido
Costumi Alessandra Torella
Luci Andrea Anfossi
Assistente alla regia Anna Maria Bruzzese
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 26 giugno 2013

La stagione del Teatro Regio di Torino si conclude con nove recite dell’Elisir d’amore, la più popolare e amata delle opere giocose di Donizetti. Non per questo la scelta del Regio può essere bollata come un “ripiego estivo” o una facile concessione al repertorio più sicuro in termini di richiamo del pubblico; anzi, va subito precisato come il teatro torinese abbia voluto impegnarsi in un nuovo allestimento e con una coppia di protagonisti vocali di altissima levatura: Francesco Meli e Désirée Rancatore, presenti nelle cinque recite affidate alla prima compagnia. L’opera mancava sul palcoscenico del Regio soltanto dal febbraio 2010, ma è necessario tornare al maggio 2007 per ritrovare una produzione direttamente alle spalle di quella attuale: regista di quell’allestimento proveniente dall’Opera di Roma era già Fabio Sparvoli, Meli si alternava nel ruolo tenorile a Juan Diego Flórez e a Massimiliano Pisapia, Nicola Ulivieri cantava nella parte di Dulcamara (mentre Adina era sostenuta da Eva Mei e da Serena Gamberoni, e direttore d’orchestra era Antonello Allemandi).
Ora a dirigere orchestra e cantanti è il giovane, ma già affermatissimo, Giampaolo Maria Bisanti, scrupoloso sin dalla sinfonia dell’opera nel valorizzare l’apporto di tutti gli strumenti e i rispettivi colori (specialmente quelli dei legni). Ottimo l’aggancio dei fiati, che introducono il coro «Bel conforto al mietitore», staccato a gran velocità (con qualche pesantezza nei colpi di piatti sul finale); il direttore tende ad accentuare le sonorità delle percussioni, anche nel corso dell’opera, correndo il rischio di irrobustire un po’ la resa orchestrale, ma la sua concertazione è molto accurata: concede ai cantanti il giusto respiro, così come stringe i tempi nei concertati e nei momenti di snodo drammatico. Nell’attacco del II atto, per esempio, Bisanti riesce a coniugare il vigore della sonorità con l’analisi dei vari disegni strumentali, sortendo un effetto assai pregevole.
Sin dalla cavatina iniziale «Quanto è bella, quanto è cara!» Meli porge con eleganza e con l’intento di alleggerire il più possibile i suoni; d’altra parte la sua voce è ormai divenuta corposa, robusta, da tenore lirico (se non da lirico spinto), e si caratterizza per una specifica “personalità vocale”, una sorta di riconoscibilità che è sempre molto positiva. La voce di Meli è perfettamente funzionale a un Nemorino goffo e impacciato, con muscoli e vigore che il povero “coltivatore, giovane e semplice” (come lo definisce Romani nelle dramatis personae) non sa gestire per nulla; al contrario, il cantante sa gestire alla perfezione i propri mezzi musicali, dalle espressioni di languore agli slanci belcantistici del duetto «Una parola, o Adina» (in cui non c’è nulla di lacrimevole nell’emissione, né di Meli né della Rancatore; un tipo di bel canto moderno, sempre robusto nel volume, ma con la giusta tentazione della leggerezza). Bellissimo e preciso l’attacco di «Esulti pur la barbara!», in cui la calibratura di sonorità, timbro, dosaggio del fiato, diventa perfetta; e nella ripresa della stessa frase Meli conferma il suo status di lirico al culmine di un percorso formativo e tecnico che lo impone quale miglior tenore italiano del momento.
Il cimento più atteso è naturalmente nel II atto, con la romanza «Una furtiva lagrima», la pagina tenorile più celebre di tutto il melodramma donizettiano; va detto, a ulteriore riconoscimento della sua professionalità, che Meli non risparmia i mezzi vocali nel corso del I atto per conservarli in funzione dell’aria solistica del II (come fece, per esempio, anche Rolando Villazon alla Scala nel 2010). Il cantante, al contrario, interpreta la romanza quale culmine della estatica felicità dell’umile personaggio, quale suo tratto più genuino, forte e inebriante al pari di un liquore. Dopo l’attacco in pianissimo l’emissione si apre, si fa potente (a tratti anche muscolare), sprigiona una messa di voce meravigliosa, con acuto “a ventaglio” che fa esplodere l’entusiasmo del pubblico (nonostante un piccolo cedimento del fiato nella difficile smorzatura conclusiva). Gli applausi scrosciano così copiosi da indurre direttore e tenore a concedere il bis; l’attacco, sempre in pianissimo, è appena un po’ più lezioso, ma il fraseggio è ancora più intenso di prima, e l’acuto finale smorzato con più abilità: il pubblico è di nuovo commosso, tanto dalla maestria tecnica quanto dalla bellezza di una voce che presenta un’omogeneità di registro davvero rara.
Désirée Rancatore ha voce di soprano che si accompagna perfettamente al timbro e alle sonorità di Meli: alle agilità coniuga un colore abbastanza brunito, una cavata robusta (anche se debole su talune note basse, e talvolta oscillante a causa dello sforzo di numerosi acuti). La cantante è spigliata e credibilissima come Adina, anche se non è molto espressiva nelle due strofi iniziali della cavatina «Della crudele Isotta». Più che altro, la Rancatore si impegna nell’emissione di acuti e sopracuti, puntature inserite con generosità (anche se forse con gusto stilisticamente non sempre condivisibile). Dopo il mi bemolle nella stretta del finale I, rivaleggia con Meli in attacchi difficili e in altre prodezze vocali, che sbilanciano un po’ il personaggio sul versante frivolo, quasi caricaturale; in realtà, un’artista intelligente ed esperta come la Rancatore non avrebbe affatto bisogno di ricorrere a tali mezzi (anche perché, alla lunga, i sopracuti si rivelano faticosi, e non sempre riescono impeccabili). In tutte le recite (tranne la première) Meli ripete la sua romanza; il soprano non vuol essere da meno, e quindi bissa la seconda parte del duetto successivo (da «il mio rigor dimentica»), arricchendolo di volatine e abbellimenti virtuosistici. Così, però, la linea vocale di Adina assume tratti frastagliati, rappresentativi dell’instabilità, quasi dell’isteria, della pazzia (e Adina non è Lucia, neppure a volerla considerare improvvisamente impazzita per amore di Nemorino). Infine, se il bis di Meli – anche per il carattere di pezzo chiuso della «Furtiva lagrima» – è comprensibile e accettabile, quello della Rancatore risulta assai meno plausibile; ma tali considerazioni critiche non valgono nulla se rapportate all’entusiasmo del pubblico torinese, che è totale e che dà senso alle scelte della cantante.
Fabio Maria Capitanucci è un Belcore che restituisce in modo simpatico e divertente il tipo del miles gloriosus, ma accusa qualche difficoltà sia nelle note basse sia in quelle acute; l’emissione, poi, è come trattenuta, leggermente ostacolata. Nicola Ulivieri è un dottor Dulcamara che irrompe sulla scena a bordo di una Topolino color magenta, in abito chiassoso da ciarlatano calzato e vestito. Purtroppo, però, la sua prestazione vocale è abbastanza deludente, sin dalla cavatina «Udite, udite, o rustici»: inquieto e ansioso di giungere al termine, Ulivieri causa un prolungato scollamento ritmico rispetto all’orchestra, che fatica ad accompagnarlo; indulge troppo ai portamenti e al parlato; non imposta neppure un acuto in modo corretto, e fa risuonare una voce schiacciata e stimbrata, a tratti anche nasale. Un poco più efficace è la resa della barcarola all’inizio del II atto, «Adorata barcaruola, / prendi l’oro e lascia amor». Apprezzabile la Giannetta di Annie Rosen, al pari del coro, perfettamente istruito da Claudio Fenoglio.
Fabio Sparvoli ha abbandonato le idee registiche di stampo “ronconiano” del 2007, a favore di un impianto registico molto più naturalistico, immediato e semplice, in cui spicca un elemento importante: la fotografia (merito di Andrea Anfossi). La luce della prima scena, di origine cinematografica, sulle tinte calde e a contrasto, come va di moda oggi, è così efficace da far dimenticare la prevedibilità dell’ambientazione rurale; le gradazioni dei colori ocra e azzurro del cielo, insieme ad altre tinte pastello che si ripetono tra i due atti, sono sufficienti a colmare lo spazio sentimentale in cui si muovono Adina e Nemorino. Se nel I atto c’è un unico elemento propriamente mobile, ossia l’auto di Dulcamara, nel II la trouvaille migliore è quella del piccolo teatrino, un retablo, in cui Adina e Dulcamara recitano con movenze da burattini la barcarola veneziana (peccato che Adina conservi la recitazione schematica della marionetta anche in alcune scene successive: è un’infiltrazione di meta-teatro che indebolisce la resa del personaggio. Allo stesso modo, troppe sono le gags che interessano il coro mentre i protagonisti vivono il loro dramma a lieto fine). Sbarazzini e funzionali i costumi di Alessandra Torella, così come risultano ariose le scene di Saverio Santoliquido (in pratica un unico blocco di caseggiato agricolo, presentato da due punti vista diversi di atto in atto; nel II c’è qualche luminaria nuziale a completare il quadro).
L’apprezzamento del pubblico è notevole per tutti gli interpreti, per il coro, per il direttore d’orchestra e per lo spettacolo in generale; ma esso diventa ovazione per i due protagonisti, Rancatore e Meli, di cui si acclamano giustamente bellezza della voce e bravura tecnica; grazie a una simile coppia di interpreti non si può che concordare con l’auspicio finale dell’opera, trasposto da Dulcamara allo stesso Elisir d’amore: «possa presto a noi tornar!» Foto Ramella&Giannese