Ancora “Nabucco” all’Arena di Verona

Verona, Fondazione Arena di Verona, Festival del Centenario 1913-2013
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti. Libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco  IVAN INVERARDI
Abigaille  LUCRECIA  GARCIA
Zaccaria  VITALIJ KOWALJOW
Ismaele  LORENZO DECARO
Fenena  ROSSANA RINALDI
Gran Sacerdote di Belo  ABRAMO ROSALEN
Abdallo  CRISTIANO OLIVIERI
Anna  FRANCESCA MICARELLI
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Julian Kovatchev
Maestro del Coro Armando Tasso
Regia Gianfranco de Bosio
Scene Rinaldo Olivieri
Costumi Pasquale Grossi 
Verona, 1 agosto 2013
Prosegue, con un dispiego di cantanti che si alternano di recita in recita, il festival del centenario dell’Arena di Verona, che congiunge la propria storia al nome di Verdi per mezzo di titoli e allestimenti collaudatissimi. E dunque torna in scena con altri interpreti rispetto a quelli della première il Nabucco nella storica versione scenica di Gianfranco de Bosio. Julian Kovatchev, assiduo direttore delle produzioni areniane ed esperto conoscitore della partitura, non riesce tuttavia a trasmettere con chiarezza la sua visione in merito alle dinamiche e ai rapporti agogici: si avvicendano sezioni staccate in tempo rapidissimo, che insidiano la capacità di adattamento ritmico dei cantanti (e a volte creano scompensi tra orchestra e voci), e momenti in cui i tempi si dilatano anche troppo (forse perché i cantanti si sentano più a loro agio? Ma è difetto ancor più grave, poiché è risaputo quanto sia difficile, nelle sonorità dell’Arena, mantenere a lungo il suono orchestrale con beneficio per gli interpreti vocali e per l’apprezzamento del pubblico). Almeno un timbro emerge sugli altri nella direzione di Kovatchev, ed è quello argentino, esile ma perforante, del flauto e dell’ottavino, che a partire dalla sinfonia distinguono un colore importante e riconoscibile: l’effetto è molto bello, perché il più delle volte proprio a questi due strumenti è affidata la conduzione melodica delle idee di Nabucco, una sorta di “guida strumentale” all’opera, che il direttore riesce a valorizzare bene (soprattutto nella I parte, perché dalla sinfonia l’effetto rimbalza anche sul concertato finale, e diventa segno coloristico coerente). Puntare sul ritmo quale unico valore-guida non sempre giova alla musica verdiana: gli interventi della banda dietro il palco, per esempio, risuonano davvero troppo “bandistici” – nell’accezione deteriore di volgarmente paesani – anche a causa di un ritmo eccessivamente incalzante. Che la concertazione non sia troppo curata (solito problema areniano del ridotto numero di prove) emerge, per esempio, dal sestetto della II parte, «S’appressan gl’istanti d’un’ira fatale», chiuso non all’unisono da parte dei cantanti (difetto macroscopico, ma un gesto direttoriale più convinto potrebbe a buona ragione stornarlo).
Ivan Inverardi è alla sua seconda recita di Nabucco in qualità di protagonista (dopo Ambrogio Maestri, Plácido Domingo, Leonardo López Linares; e dopo di lui sarà ancora la volta di Marco Vratogna), ma entra in scena con un certo nervosismo, con un incedere frettoloso (che crea nuovo scollamento rispetto all’orchestra: ora tocca al direttore ricucire lo strappo). La sua prestazione migliora soprattutto nelle parti III e IV, allorché il re assiro assume il ruolo di uomo sconfitto, demente e poi rinsavito grazie alla conversione; molto corretto nel grande duetto con il soprano, Inverardi offre il meglio di sé con la preghiera «Dio di Giuda! l’ara, il tempio» all’inizio della IV parte, rivelando in modo abbastanza evidente come il suo modello interpretativo sia il Nabucco di Leo Nucci.
 Vitalij Kowaljow è uno Zaccaria autorevole e persuasivo, anche se la voce non risuona coperta in tutte le note acute; per il resto difetta di espressività, e non sempre l’intonazione lo accompagna in modo perfetto. Un problema ricorrente nel canto di Kowaljow è la tenuta del suono: non nell’attacco, che è per lo più corretto, ma nel suo mantenimento l’emissione e l’intonazione sono spesso compromesse. Non c’è questione, però, sulla sua presenza scenica, e sulla capacità di magnetizzare l’attenzione del pubblico, tanto che in questa compagnia è Zaccaria, ancor più di Nabucco, l’elemento maschile in grado di catalizzare gli spettatori, che ne apprezzano ogni numero chiuso con convinti applausi. La prestazione dell’artista pare comunque migliore rispetto a quella scaligera dello scorso febbraio, nello stesso ruolo. Lorenzo Decaro è tenore dotato di bella voce, ma non particolarmente adatta agli spazi areniani: tale consapevolezza lo induce a forzarla, a “spingerla” troppo, con il risultato di imbruttirla; in difficoltà nel terzetto della I parte, è più a suo agio nel dialogo corale della II. Lucrecia Garcia sta imprimendo alla sua carriera vocale una svolta importante, perché da ruoli di soprano lirico si avvicina sempre più a parti di soprano lirico-spinto o addirittura drammatico: ad aprile ha affrontato la parte di Lady Macbeth alla Scala, e ora propone un’Abigaille interessante, anche se dalla resa discontinua; un po’ in difficoltà nel terzetto della I parte, affronta meglio la grande scena iniziale della II, e nell’arduo recitativo esegue bene il salto d’ottava di «Su me stessa rovina, o fatal sdegno!» La qualità musicale della medesima scena, poi, illumina sulla vocalità della Garcia: le sue note centrali rimandano chiaramente alla tipologia del soprano lirico, e si apprezzano bene perché naturali e omogenee (soprattutto in «Anch’io dischiuso un giorno»); nelle note basse e in quelle acute, che esigono un appoggio più sicuro e un sostegno di fiato più impegnativo, l’uniformità del timbro invece viene meno, e l’effetto è quello di una voce troppo leggera rispetto alla tessitura, costretta a forzare, e a penalizzare il fraseggio, l’espressività, le emozioni del personaggio (nella cabaletta «Salgo già del trono aurato» il ricorso al grido è inevitabile). Modalità alternativa di risolvere le note basse, nella tecnica della Garcia, consiste nel riprodurre sonorità e stilemi contraltili, che però non si conformano per nulla al resto del registro; e contro-prova di tale osservazione è che il momento migliore della sua Abigaille sia la sommessa preghiera finale «Su me… morente… esanime…», ossia un brano squisitamente lirico, e non drammatico.
Rossana Rinaldi si disimpegna molto bene nel ruolo di Fenena (peccato per l’acuto imperfetto di «Oh, dischiuso è il firmamento!»). Cristiano Olivieri è un Abdallo dalla voce tremolante e dall’emissione poco sicura; convincenti il Gran sacerdote di Belo di Abramo Rosalen e la Anna di Francesca Micarelli. Il coro dell’Arena, preparato da Armando Tasso, si presenta allenatissimo nei grandi momenti di Nabucco, e regala emozioni non scontate soprattutto nella III parte: «Va, pensiero, sull’ali dorate» è bissato, come di prammatica areniana, con soddisfazione anche degli ascoltatori più scaltriti.
Sul piano musicale il Nabucco del centenario areniano è un prodotto di routine teatrale, da intendersi come esecuzione complessivamente professionale e seria, ma migliorabile in moltissimi momenti. Soprattutto agli interpreti – a tutti – viene spontaneo domandare: perché non sforzarsi di cantare con un po’ più di espressività? Perché non studiare meglio le parole del libretto di Temistocle Solera e le indicazioni di Verdi? In definitiva, perché non provare a regalare qualche autentica emozione affettiva agli ascoltatori, che vada al di là dell’indiscutibile bellezza musicale di ogni pagina solistica e dei pezzi d’insieme?  
Lo spettacolare impianto scenico di Gianfranco de Bosio (per il cui dettaglio si veda la recensione di Tommaso Benciolini) sembra davvero senza tempo: monumentale e contemporaneamente abbastanza agile, decorativo senza essere stucchevole, è capace di porgere innegabili suggestioni, per esempio quando nell’assalto del tempio di Gerusalemme i guerrieri assiri salgono fin sugli ultimi gradini, disponendosi in due triangoli simmetrici che sovrastano il tableau vivant, o quando le file di fiaccole illuminano discretamente il sottostante popolo ebraico schiavo, che canta sulle rive del Giordano. Sono probabilmente il gusto per le simmetrie e il bilanciamento visivo degli elementi architettonici a rendere l’allestimento in perfetta sintonia con la musica e con lo spazio areniano. Si potrebbe obiettare che esso si rivolga esclusivamente a esigenze nazional-popolari del pubblico teatrale (e infatti, nell’elegante programma di sala del centenario un saggio di Angelo Foletto ha per titolo Spettacolo e Letteratura Popolare). In realtà questa edizione del centenario può essere utile a correggere – o almeno a riflettere su – l’idea stessa di nazional-popolare, a partire dal pubblico effettivamente presente e dalla sua consistenza. L’aggettivo nazionale appare riduttivo, perché moltissimi frequentatori di Verona sono gruppi stranieri (gli italiani in Arena sono gran numero; ma che fine hanno fatto le folle che assediavano i cancelli e facevano registrare il ‘tutto esaurito’, quando dalle varie province della penisola giungevano i gruppi a gremire ogni ordine di gradinata? Quel pubblico dei decenni passati non è stato ricambiato, e purtroppo i giovani intervenuti a questo Nabucco sono ben pochi). Che poi il melodramma verdiano sia espressione artistica popolare, non v’è dubbio; ma come non accorgersi che la cultura pop(olare) di oggi disprezza il teatro musicale e lo considera sorpassato, elitario, pretestuoso? Perché non accorgersi che certe modalità di proporre l’opera, se sono attendibili e soddisfacenti per una fascia di spettatori, lasciano indifferenti o addirittura annoiano tutti gli altri? Il melodramma verdiano, anziché essere trattato come fenomeno nazional-popolare, dovrebbe diventare un medium “internazionale-educativo”; in questa sfida sul futuro dell’arte italiana l’Arena di Verona ha grandi e nuove possibilità, tutte da sperimentare e da sfruttare. Foto Ennevi per Fondazione Arena