Martina Franca, XXXIX Festival della Valle d’Itria, Palazzo Ducale
“CRISPINO E LA COMARE”
Melodramma fantastico-giocoso in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave.
Musica di Luigi e Federico Ricci
Crispino DOMENICO COLAIANNI
Annetta STEFANIA BONFANDELLI
La Comare ROMINA BOSCOLO
Contino del Fiore FABRIZIO PAESANO
Fabrizio MATTIA OLIVIERI
Mirabolano ALESSANDRO SPINA
Asdrubale CARMINE MONACO
Lisetta LUCIA CONTE
Bortolo FRANCESCO CASTORO
Orchestra Internazionale d’Italia
Coro del Teatro Petruzzelli di Bari
Direttore Jader Bignamini
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia Alessandro Talevi
Scene Ruth Sutcliffe
Costumi Manuel Pedretti
Disegno luci Giuseppe Calabrò
Martina Franca, 29 luglio 2013
Dopo il ripescaggio di Napoli milionaria del 2010, il Festival della Valle d’Itria con Crispino e la Comare dei fratelli Ricci torna a proporre un’opera ‘nazionalpopolare’, all’epoca (Venezia, Teatro San Benedetto, 28 febbraio 1850) salutata da enorme successo, estesosi nel corso dell’Ottocento su scala planetaria (dagli USA a Calcutta), e poi scomparsa fino alle discontinue riscoperte degli undici allestimenti compresi tra il 1950 e il 2012 (spicca quello della co-produzione Fenice/San Carlo, 1984-86, con regia di Roberto De Simone). Ad ascolto terminato vien da chiedersi il perché di tanta celebrità, considerata la bassa qualità compositiva di libretto e partitura, la stereotipia drammaturgica, gli stanchi calchi donizettiani e i (pochi) rossinismi fuori tempo massimo. Non gloriosa epitome d’una tradizione buffa secolare, ma operetta ante litteram senza troppe pretese e, proprio per questo, gustosamente innocua, fatta di garbati lazzi e di topoi collaudati, emblema d’una comicità corriva e mai corrosiva. Se infatti Piave non pensò certo d’attivare nel suo libretto vaghi spunti di sovversività, i Ricci si spinsero addirittura ad omaggiare con ammiccamenti al valzer la cultura dei dominatori, del maresciallo Radetzky, entrato trionfante a Venezia sei mesi prima. La longevità del Crispino sulle scene nostrane può spiegarsi semmai in relazione al carattere archetipico della coppia protagonista, Crispino e la moglie Annetta, icona d’un’italianità sorniona, scanzonata e al tempo stesso dimessa, un duo ‘malincomico’ destinato a continue reincarnazioni, dall’operetta Il Ventaglio (1923) di Alfredo Cuscinà, a molte commedie di De Filippo, fino al Polvere di Stelle di Alberto Sordi e Monica Vitti (1973). La scelta di ambientare la vicenda (originariamente datata XVII secolo) ai giorni nostri è parsa dunque scontata, considerando la lunga scia di riscritture novecentesche condotte sul plot e sui personaggi. Il regista sudafricano Alessandro Talevi e la scenografa inglese Ruth Sutcliffe hanno ritratto una contemporaneità fagocitata dall’immaginario televisivo e abitata da volgari ragazzotti/e armati di I-Phone, donne bisognose di botulino e rigonfiamenti labiali, arricchiti smargiassi con body guard al fianco. In questo contesto – visivamente dominato da grandi cartelloni pubblicitari (sui quali venivano parodiate con arguti doppi sensi le grandi firme:Vulgari, Rmania Jeans) inneggianti al culto del corpo perfetto – la figura allegorica di Comare Morte non poteva che vestire i panni della sciantosa presentatrice avvezza a maneggiare microfoni e scendere e salire scalinate (a questo serviva la struttura architettonica centrale con doppia scala elicoidale che abbracciava il pozzo del tentato suicidio di Crispino), opportunamente illuminate da faretti multicolori. L’idea in sé è valida, ma dalla libertà che il giovane Talevi ha lasciato agli interpreti è sortita una regia ‘anarchica’ e, a tratti, caotica, non pienamente governata (in più occasioni le comparse erano d’impaccio ai cantanti) o finanche pensata (perché il dottor Fabrizio a un certo punto della sua cavatina decide di scendere in platea?). Se il regista avesse fatto dialogare un ‘suo’ testo accanto a quello verbal-musicale, ne sarebbe sortito un antidoto alla staticità intrinseca allo spazio allestitivo martinese. Unica l’occasione in cui la ‘ri-creazione’ registica s’è fatta sentire: il coro dei dottori nella scena III.5, con tenori e bassi che, tutti in camice verde e guanti in lattice, creavano coi loro corpi tre pareti intorno alla convalescente Lisetta, segno d’un’ottusità corporativa atta a disumanizzare (dispersi da Crispino, i dottori entravano nelle quinte come pupazzi a retrocarica impazziti). La necessità di contenere le spese di produzione ha ridotto all’osso le scene e ancor più i costumi di Manuel Pedretti contrassegnati da un’intenzionale banalità. Buono il lavoro del light designer Giuseppe Calabrò che, ad onta del guasto a un seguipersone, ha saputo tener testa al dinamismo dei brani polivoci e alla lunga, lunga, lunga scena oltretombale conclusiva.
Ottima la prova di Domenico Colaianni (Crispino), cantante capace di restituire una comicità e una vocalità d’altri tempi, quella del ‘basso parlante’ che, come ben compendia quel termine del gergo teatrale, deve in primo luogo essere un ottimo attore. Dizione perfetta, physique du rôle ineccepibile, estrema generosità gestuale caratterizzano quest’uomo di teatro versatile, degno erede dei settecenteschi Casaccia e nondimeno a suo agio nelle partiture ottocentesche e pucciniane. Per comprenderne la peculiarità timbrica basti il confronto con l’altro baritono, il dottor Fabrizio: Mattia Olivieri ha voce corposa, volume pieno, sicurezza d’intonazione e grande raffinatezza; Colaianni al confronto sembra cantare più ‘arretrato’, risulta più scuro e, nel complesso, più ‘ruvido’; proprio tale ruvidezza si addice al personaggio qui interessato da un’ascesa e caduta che implica l’adozione (negli ultimi due atti) d’una indefinibile asprezza. La voce di Colaianni è dunque sempre ritagliata sul dramma e sulle sue ragioni anche a costo di sembrare meno bella. Più astratta la parte scritta per Annetta, impersonata dalla brava Stefania Bonfadelli che gestisce con precisione i non rari passaggi d’agilità centrando sicura gli acuti. Tra l’altro la scelta di accoppiare due a due i quattro atti dell’opera ha sottoposto la cantante a un autentico tour de force inanellando il Duetto con Crispino e la grande Aria che avvia l’atto secondo. Nonostante i natali veneti, la Bonfadelli ha preferito non calcare facili ammiccamenti nella Canzone della frittola mantenendo anche in quel frangente una compostezza olimpica o, meglio, da Olimpia (la bambola automa dei Contes d’Hoffmann). Pienamente nella parte anche il basso Alessandro Spina (Mirabolano) che ha sfoggiato una voce brunita e potente; piuttosto sottotono il tenore Fabrizio Paesano che stenta a trovare la misura per ben intonare l’omaggio di Luigi Ricci al Don Pasquale (la sua romanza riprende l’incipit di quella del dottor Malatesta: Pura siccome un angelo) collocato nell’Introduzione, né migliorano in corso d’opera i problemi legati al volume ridotto e all’emissione non sempre impeccabile. Ugualmente discontinue le prove di Romina Boscolo (Comare) dal timbro scurissimo e con un vibrato fastidioso e di Carmine Monaco (Asdrubale) timbricamente piatto e troppo caricato nella mimica. Buone le due parti di fianco (Francesco Castoro è allievo di Colaianni e metterà presto a frutto tale imprinting). Imperfetto nelle entrate e piuttosto distratto il Coro del teatro Petruzzelli diretto da Franco Sebastiani. Jader Bignamini ha condotto l’Orchestra internazionale d’Italia con un’energia che è stata capace di mantenere alta la tensione di una partitura spesso ridondante e non certo curata nei dettagli per quanto attiene all’orchestrazione. Ottoni un poco invadenti e archi tiepidi, ottimi i legni (sarà perché sul podio c’era un clarinettista raffinato?) ma nel complesso è emersa una certa monocromia timbrica stemperata dall’estrema adeguatezza degli stacchi ritmici.
‘Capolavoro dimenticato’? Quasi sempre la caduta nell’oblio è il giusto destino che spetta a opere più di altre legate al loro tempo. Ciò nondimeno simili riesumazioni sono preziosissime per chi si occupa di storia della ricezione e fanno riflettere su tanti aspetti del sistema produttivo melodrammatico che soltanto il vivo ascolto lascia emergere. E poi va confessato che il pubblico si è proprio divertito; magari non ha avvertito i brividi del sublime, non si è commosso, né impressionato, ma di certo ha trascorso due ore e mezza di estrema piacevolezza riservando calorosi applausi all’intero cast (i fratelli Ricci, complice Colaianni, hanno fatto centro anche nel 2013!). Foto Lab.Fotografia © Fondazione Paolo Grassi