Cronache del MITO: la doppia inaugurazione

Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VII Edizione MITO Settembre Musica, Milano, Teatro alla Scala – Torino, Teatro Regio. 
Akademie für Alte Musik Berlin
Cappella Amsterdam

Direttore Daniel Reuss
Soprano Elisabeth Watts
Mezzosoprano Stella Doufexis
Tenore Lothar Odinius
Basso Andreas Wolf 
Franz Joseph Haydn: Sinfonia in re minore Hob. I, 80 (1784)
Johannes Brahms: Mottetto op. 74 n. 1 «Warum ist das Licht gegeben dem Mühseligen?» (1877)
Wolfgang Amadeus Mozart: Messa in do minore per soli, coro e orchestra KV. 427 (1783)
4 (Milano) e 5 (Torino) settembre 2013 

Una sera al Teatro alla Scala di Milano, e la sera dopo al Teatro Regio di Torino per il concerto inaugurale della VII edizione di MITO, il prestigioso festival che unisce le due città di Piemonte e Lombardia: quest’anno identico programma, decisamente inusuale per un’occasione del genere, ma molto apprezzato dal pubblico di entrambe le sedi. Ed entrambe le serate iniziano con una posizione di forte valenza civile e politica, dal momento che un appello riconduce l’afflato della musica sacra in programma al carisma di papa Francesco e al suo intervento contro ogni tipo di guerra e di violenza in medio Oriente. A Milano MITO è realizzato dall’Associazione per il Festival Internazionale della Musica, strutturata in un nutrito Advisory Board e in un Comitato di Patronage; ecco perché nella platea scaligera abbondano le personalità di spicco dal mondo della cultura; a poche poltrone di distanza si vedono infatti Inge Feltrinelli, Umberto Eco, Vittorio Sgarbi, l’ultracentenario Gillo Dorfles. Internazionale l’insieme degli artisti: la Akademie für Alte Musik Berlin, fondata nel 1982 e divenuta celebre in ambito oratoriale grazie a René Jacobs; il coro da camera Cappella Amsterdam, nato nel 1970 (e dal 1990 diretto da Daniel Reuss); di origine e formazione tedesca o anglosassone i quattro cantanti solisti. Il complesso strumentale suona la sinfonia di Haydn senza direttore; ma è evidente l’impegno – da autentico Konzertmeister – del primo violino, Bernhard Forck, soprattutto per esaltare il contrasto tra i ritmi danzanti e le turbolenze dell’Allegro spiritoso iniziale, quasi l’opera prendesse avvio con un grazioso minuetto degli archi, che i fiati cercano di soffocare. Alla Scala la conservazione delle mezze luci, l’assenza del direttore, l’anomalia di questo Haydn misterioso e inaspettato lasciano il pubblico un po’ sbalordito (va detto, public de première quant’altri mai, con una platea traforata di moltissime poltrone vuote, sebbene il concerto figurasse come esaurito). Al Regio gli spettatori sono invece più a loro agio, in una sala gremitissima, che da subito partecipa della bellezza della sinfonia e delle sonorità della Akademie. Né stridori né distorsioni di tonalità, come a volte i complessi di strumenti antichi fanno temere; al contrario, la compagine mantiene da sola una leggerezza di suono e un’attenuazione delle linee espressive davvero mirabili (tanto più, senza un direttore capace di raggiungere i singoli strumentisti). Ogni contrasto nell’Adagio e nel Minuetto è appianato; si sentono appena, in primo piano, gli ammiccamenti bellissimi dei corni: tutto è raffinatissimo e compassato al tempo stesso. Rispetto allo scintillio galante e manierato con cui i direttori del repertorio romantico lo eseguivano, e rispetto ai tormenti dissonanti, sempre alla ricerca del suono scabro e aspro, tipici delle esecuzioni degli anni Novanta e Duemila, l’Haydn dell’Akamus sembra percorrere una terza via, della ricerca coloristica in una dimensione sonora costantemente da camera. Anziché sulle dissonanze il complesso insiste sulle risonanze del singolo strumento o di un gruppo, che s’impone temporaneamente provocando una screziatura di effetto dinamico, oltre che elegante. In tal modo ogni frase è arrotondata e incontra un punto forte di sottolineatura; tale resa è macroscopica nel II e nel IV movimento, grazie ai corni, e più leggiadra nel I, grazie ai flauti. Il Trio del Minuetto è il più suggestivo momento di effetto chiaroscurale, ottenuto dai tenui squilli dei fiati su un’intelaiatura mormorante degli archi: un Haydn misterioso ed enigmatico, sornione anziché vezzoso, lepido – specie nel finale – come un quartetto d’archi.
La pacatezza con cui l’orchestra affronta Haydn si ripresenta nell’emissione vocale del coro a cappella per il mottetto di Brahms; e per dirigere la Cappella Amsterdam fa il suo ingresso Daniel Reuss. Il sostegno delle voci maschili non fa certo sentire la mancanza di accompagnamenti orchestrali, ed è in perfetta sintonia con il gruppo femminile; da serafiche, nella sezione in cui si parla di Giobbe e della sua pazienza, le voci si fanno vibranti e più appassionate, a dimostrazione della ricchezza espressiva di un brano che dura pochi minuti.
Il concerto offre un’interessante struttura tripartita: prima gli strumenti soli per Haydn, poi il coro a cappella per Brahms, infine tutti, con aggiunta di un quartetto di solisti vocali, per Mozart: si apprezzano così la qualità musicale delle singole componenti, e quindi l’armonia dell’insieme. La Messa KV. 427 è una composizione grandiosa, frammentaria, incompiuta; Reuss, applicando quello stile severo e pacato già adottato per Haydn, riesce a conferirle piena unità e solennità, sin dal «Kyrie» d’apertura, scandito dai rintocchi inesorabili del timpano. Poiché l’intesa tra orchestra e coro è perfetta, i momenti più belli sono appunto quelli in cui protagonista è il coro, in particolare nel «Qui tollis» (con l’eco dei corni all’invocazione «Miserere nobis») e nel «Sanctus» (grazie allo splendore del canto e del tessuto strumentale che lo sorregge). Le quattro voci soliste, al contrario, sono assai deludenti: il soprano Elisabeth Watts mostra non pochi limiti: centro inesistente, del tutto spoggiato e appena percettibile, pressochè sempre forzato in quello acuto. Nel duetto del «Domine Deus» si ascoltano ululati belluini (a Milano; a Torino c’è appena un po’ più di controllo) che mortificano del tutto l’intensità supplicante della pagina. Nella lunga cadenza dell’«Et incarnatus» non c’è proprio nulla di pregevole.
Le cose non vanno meglio con il mezzosoprano, Stella Doufexis, dalla  voce assai poco musicale, povera di armonici; sembra che si limiti ad abbozzare  le agilità del «Laudamus te», come se costituissero una componente fastidiosa della partitura; fortunatamente le sonorità orchestrali sono cameristiche, altrimenti non si sentirebbe nulla. Un simile accennare, ai limiti dell’intonazione, denota però soprattutto la disattenzione da parte del direttore: perché alla cura scrupolosa per dinamiche, emissione, sonorità di strumenti e voci corali non corrisponde adeguata attenzione anche per i solisti, che in certe pagine dovrebbero essere protagonisti assoluti della musica? E si tratta di Mozart, l’autore che ha rinnovato la vocalità del melodramma alla fine del Settecento! È l’unico appunto che si possa muovere a Daniel Reuss, ma non è da poco, il disinteresse per i cantanti (abbandonati a se stessi anche nel corso dell’esecuzione). Fortunatamente sono molto limitate le parti del tenore (Lothar Odinius) e del basso (Andreas Wolf, che è in realtà un baritono e pure dal timbro chiaro): può valere anche per loro quanto segnalato per le voci femminili.