Cronache del MITO: Uto Ughi “all inclusive”

Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VII Edizione – MITO Settembre Musica, Torino, Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto 
I Filarmonici di Roma
Direttore e violino Uto Ughi 
Franz Josef Haydn: Sinfonia in fa minore Hob. I:49 “La passione”
Tomaso Antonio Vitali: Ciaccona in sol minore
Gaetano Pugnani – Fritz Kreisler: Preludio e Allegro per violino e orchestra
Camille Saint-Saëns: Havanaise in mi maggiore per violino e orchestra op. 83
Niccolò Paganini: Concerto n. 4 in re minore per violino e orchestra
Torino, 17 settembre 2013
Ed ecco l’ultimo concerto di MITO 2013 che si apre con una sinfonia di Haydn, quella soprannominata “La passione”, per l’adesione all’estetica rinnovatrice, preromantica, dello Sturm und Drang. Curiosamente la sinfonia costituisce una specie di sobria ouverture a un recital solistico in cui la presenza del complesso orchestrale si riduce al minimo, dominato com’è dal suono del fantastico Stradivari “Kreutzer” di Uto Ughi (il leggendario strumento appartenuto al dedicatario dell’omonima sonata beethoveniana). La sinfonia haydniana è eseguita dai Filarmonici di Roma senza direttore, ma con la guida apprezzabile della violinista di spalla; comunque, più degli archi, è nitido e stagliato il suono del corno, cui competono interventi importanti nel corso dell’intera partitura (non esenti, però, da qualche piccolo incidente nel Trio, all’interno del Minuetto).
Il pubblico di MITO – a Torino in particolare – è abituato ai concerti con Uto Ughi protagonista; e ogni volta accorre a gremire l’Auditorium del Lingotto e a festeggiare il grande virtuoso. In queste occasioni il giudizio critico si divide sempre, da una parte in una ripetizione alquanto stantia dei soliti elogi (sulle prodezze virtuosistiche, sulle acrobazie spericolate, insomma sul dato più spettacolare della letteratura per violino accompagnato), dall’altra in una sdegnosa deplorazione sulla ripetitività del medesimo repertorio, in cui non mancano mai la Ciaccona di Vitali, l’Havanaise di Saint-Saëns, un Paganini, un Kreisler che riscrive una pagina barocca (questa sera è la volta di Pugnani); alla fine del concerto cade una grandinata di bis – piuttosto prevedibili anch’essi, pur nell’eterogeneità degli stili e delle epoche – che nella fattispecie di MITO 2013 sono una Polonaise di Henryk Wieniawski, una danzante Vida breve di Manuel De Falla, un tango di Astor Piazzolla, e per quarto il bis dei bis, il ‘passaggio al limite’ del funambolismo violinistico, il nec plus ultra dell’esibizione, nonché del Kitsch musicale ottocentesco-italiano come La ronde des lutins (La ridda dei folletti) di Antonio Bazzini (forse di peggio c’è soltanto il Gran ballo Excelsior …).
In una contrapposizione così netta chi ha ragione? I fautori del mostro sacro o i detrattori della risplendente banalità musicale? Entrambe le parti – occorre rispondere con sicurezza; né ci si deve stupire, perché l’opposizione dei pareri fa parte della fenomenologia di Uto Ughi e dei suoi concerti: se anche si ripetono pressoché identici, per gusto e per accostamento di stili (a volte davvero discutibili), il pubblico apprezza, si lascia incantare, entra in simpatia con il musicista che ama interloquire con l’uditorio e chiacchierare armato di microfono. Oltre al consolidamento di un repertorio quasi fisso di pagine, “arie di baule”, bis obbligati, anche il dialogo con il pubblico è infatti un ingrediente fondamentale per garantire il successo complessivo dell’esecuzione musical-spettacolare: Ughi si compiace di spiegare perché un brano segua un altro, o perché un titolo del programma originario sia stato sostituito (come appunto questa sera: la Méditation in re minore n. 1 di Čajkovskij è stata rimpiazzata dal metafrasticamente ibrido Pugnani-Kreisler perché – dice Ughi – il secondo sarebbe «stilisticamente più adatto a seguire la Ciaccona di Vitali rispetto alla prima». All’ascolto dei due brani in successione i punti di contatto sembrano davvero pochi, anche in termini di qualità esecutiva, ma non importa: ipse dixit). Del resto, la diffusione artistica si è sempre appoggiata a carismatici esecutori, che a volte finiscono per appiattire stili e personalità d’autore, riuscire dunque autoreferenziali (si pensi al concerto sinfonico à la Stokowski di metà Novecento), ma hanno comunque il merito di accorciare le distanze tra un’arte ritenuta lontana e una società di massa che non ha più troppo tempo da dedicare all’arte stessa. Nella Ciaccona di Vitali il virtuosismo di Ughi è splendido e molto godibile, ma l’orchestra sembra davvero un inutile orpello; il solista e direttore non scambia neppure uno sguardo d’intesa con il primo violino, per tutto il corso dell’esecuzione (qualche timido tentativo di comunicazione si avverte soltanto dopo il dialogo tra strumento solista e violoncello). L’autoreferenzialità consiste anche nella scelta di una pagina interamente costruita sull’abbellimento, articolata in blocchi collegati da modulazioni sfacciate (e non sempre di ottimo gusto); molto più comunicativo, anche per l’apporto ritmicamente calzante dell’orchestra, il Preludio e Allegro di Pugnani-Kreisler, in cui il violino di Ughi offre sonorità più nervose, di fibra agilissima. I ruoli cambiano ancora quando il secondo violoncello, Antonio D’Antonio, assume le vesti di direttore d’orchestra per l’Havanaise di Saint-Saëns: altro esempio notevole di Kitsch in musica, eternamente sospeso tra l’ineffabilmente brutto e il divinamente bello; nella rivisitazione dell’habanera cubana, però, Ughi e l’orchestra percorrono strade tonali diverse, con un effetto di discrasia complessiva alquanto imbarazzante all’ascolto. Nel concerto paganiniano, coronamento del programma, il violinista ritorna anche direttore, e comunica con i Filarmonici per mezzo di una gestualità a scatti furiosi e sguardi infuocati; nei primi due movimenti (Allegro maestoso e Adagio flebile con sentimento) l’orchestra non è del tutto uniforme né sincrona; nel III (Rondò galante. Andantino gaio) ogni altro aspetto passa in secondo piano, perché è il momento più pirotecnico dell’intero concerto (a parte l’inarrivabile Ridda dei folletti, che chiuderà la ridda dei bis). Con il finale di Paganini Ughi dà il meglio di sé, alla ricerca di sonorità alternative (finalmente!) come le inflessioni in sordina, “vetrose”, da Glass Harmonika, della sezione conclusiva. Entusiasmo del pubblico alle stelle, tripudio di fuori programma, applausi torrenziali, incontro con gli ammiratori nel foyer prima dell’uscita, strette di mano, autografi e sorrisi: è l’Uto Ughi all inclusive, in versione scintillante e divistica, simpatica e un po’ baraccona, dall’alfa all’omega.  Fotografie Gianluca Platania/Antonio Polia