Santa Fe, New Mexico, Santa Fe Opera Festival 2013
“LA GRANDE-DUCHESSE DE GEROLSTEIN”
Opéra-bouffe di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dialoghi in inglese di Lee Blakeley. Revisione musicale di Jean-Christophe Keck.
Musica di Jacques Offenbach
La Grande-Duchesse SUSAN GRAHAM
Fritz PAUL APPLEBY
Wanda ANYA MATANOVIČ
Le Général Boum KEVIN BURDETTE
Le Prince Paul JONATHAN MICHIE
Le Barone Puck AARON PEGRAM
Népomouc THEO LEBOW
Le Baron Grog JARED BYBEE
Le demoiselles d’honneur SHELLEY JACKSON, JULIA EBNER, SARAH MESKO, SISHEL CLAVERIE
Le notaire DAN KEMPSON
Orchestra, Coro e Artisti Apprendisti del Santa Fe Opera Festival
Direttore Emmanuel Villaume
Maestro del Coro Susanne Shelton
Regia Lee Blakeley
Scene Adrian Linford
Costumi Jo van Schuppen
Coreografie Peggy Hickey
7 agosto 2013
Il mezzosoprano Susan Graham è stata a lungo una pregevole interprete della musica vocale francese presente in molti dei suoi recital, mentre le sue incursioni nell’opéra-bouffe sono state rare: la sua ultima apparizione, in questo senso, è stata in La Belle Hélène di Offenbach al Santa Fe Opera Festival dieci anni fa, in un allestimento firmato da Laurent Pelly.
Il ritorno dell’artista del New Mexico su questo palco e con questo repertorio segna un’occasione importante: la possibilità di farsi ammirare da un pubblico che l’adora in un nuovo ruolo. Infatti la Graham ha per la prima volta interpretato la Grand-Duchesse e, visto il successo ottenuto, ci si augura che lo ritorni presto a interpretare. Rispetto ad altre cantanti che hanno impersonato questo ruolo a fine carriera e a volte in disarmo vocale, la Graham ha evidenziato freschezza vocale, unita a una sensuale ma anche brillante presenza scenica. La sua pruriginosa passione per i militaires è sembrata più eccentrica che “morbosa”, a causa di un difetto fondamentale nel concept della regia.
Inspiegabilmente, il regista britannico Lee Blakeley ha ambientato la Grande-Duchesse in un’accademia militare americana, ai primi del ‘900, quando il nazionalismo sciovinista americano dominava l’immaginario pubblico. L’errore, in questo caso, sta nel fatto che nessuna direttrice di un’accademia militare americana (ammesso che una tale figura possa mai esistere) avrebbe avuto il potere di mandare i suoi cadetti a morire in battaglia. Se Blakeley avesse ambientato l’azione in uno di quegli imperi americani del genere steampunk che si vedono nelle vecchie serie TV come The Wild, Wild West, allora la sua messinscena avrebbe funzionato. Non si è spinto fin là: invece, è riuscito a rendere l’operetta di Offenbach al contempo più immediata e più superficiale. Nel processo di creazione, è andato perso tutto l’intento satirico del librettista nei confronti della “pruderie” della Francia di Napoleone III e dell’ascesa del nazionalismo tedesco nel 1867.
Infatti, l’immagine presentata dal Festival di questo lavoro (una tardona incoronata, che nello slang americano viene definita “cougar” ossia una donna matura che cerca uomini più giovani) suggerisce un approccio decisamente senza pretese intellettuali, confermato dall’ambientazione nel Midwest americano, dal presupposto (palesemente falso) secondo cui presumibilmente il pubblico americano non si sentirebbe coinvolto da personaggi che non sono americani. Un simile orientamento di pensiero potrebbe aver informato l’inclusione di Walt Whitman in Oscar di Theodore Morrison, visto anch’esso a Santa Fe in questa stagione.
Ancor più inspiegabile in termini drammaturgici, la decisione da parte di Blakeley di tradurre in inglese i dialoghi, mentre la parte musicale è stata eseguita in lingua originale. Tuttavia, questa produzione ha beneficiato di una revisione musicale curata da Jean-Christophe Keck che ha recuperato parti musicali solitamente tagliate che valorizzano maggiormente Fritz e Wanda, un finale del secondo atto più ampio e un assolo della protagonista. Una scelta questa, che è servita a rifinire i personaggi e ad accrescere l’interesse verso la trama. Emmanuel Villaume ha diretto l’orchestra un po’ troppo vigorosamente a volte penalizzando i cantanti, pur apportando tutta la brillantezza e il fascino necessari. Uno spettacolo complessivamente godibile, animato da un cast di autentici cantanti-attori, dalle deliziose coreografie di Peggy Hickey e dai costumi di Jo van Schuppen cha pienamente ha sfruttato la varietà stilistica dell’epoca di ambientazione. Tutto ciò ha alleggerito dalle incongruenze dell’idea registica di di Blakeley.
Accanto alla Graham abbiamo ascoltato alcuni dei migliori cantanti della nuova generazione americana. Primi fra tutti il basso-baritono Kevin Burdette (Le General Boum) e il baritono Jonathan Michie (Le Prince Paul), che hanno unito a delle voci risonanti, bella linea di canto, dizione cristallina a delle brillanti interpretazioni attoriali. Si è apprezzato la squillante vocalità tenorile di Aaron Pegram (Le Baron Puck, qui trasformato, non si sa perchè, in un prete cattolico). Nel ruolo di Fritz, il tenore Paul Appleby ha confermato l’eccellente impressione fatta l’anno scorso al Metropolitan Opera nel ruolo di Hylas ne Les Troyens di Berlioz (la stessa produzione in cui la Graham è ritornata alla sua superba interpretazione di Didon). Il suo Fritz è stato sempre ben cantato e teatralmente avvincente, benché il vigore vocale abbia cominciato a perdere smalto nel terzo atto. Nella parte della sua amata Wanda, si è messa in luce il soprano Anya Matanovic, cantante dal non comune temperamento vocale e teatrale, non certo una “sourbrette” da operetta. Foto Ken Howard