Firenze, Teatro Della Pergola, Amici della Musica, “Settembre Musica 2013”
Soprano Jessica Pratt
Pianoforte Vincenzo Scalera
Jules Massenet: Ouvre tes yeux bleus (P. Robiquet); Charles Gounod: Sérénade (V. Hugo); Alfred Bachelet: Chère nuit (E. Adénis-Colombeau); Claude Debussy: “Quatre Chansons de Jeunesse”- Pantomine (P.Verlaine) – Clair de lune (P.Verlaine) – Pierrot (Th. De Banville) – Apparition (S.Mallarmé); Eva Dell’Acqua: Villanelle (F. van der Elst); Léo Delibes: Les Filles de Cadix (A. de Musset); Giacomo Meyerbeer: “Ô beau pays de Touraine!” (da “Les Huguenots”); Gioachino Rossini: “Sombre forêt” (da “Guillaume Tell”); Ambroise Thomas: “A vos jeux, mes amis” (da “Hamlet”). [fine-scheda]
Un programma tutto imperniato sulla vocalità sopranile ottocentesca francese, questo è stato il recital che il duo Jessica Pratt e Vincenzo Scalera hanno offerto al pubblico fiorentino questa sera. Il titolo “Grand-opéra e dintorni” giustifica un tipico esempio di recital da “primadonna” che si sforza si mettere in armonica coerenza i due o tre numeri musicali di grande effetto che sgorgano dal vasto repertorio operistico dell’artista con tutta una parte cameristica di fatto molto eterogenea. Tutti brani di sicuro e meritato effetto sul pubblico che ha destinato un crescendo di applausi all’artista.
La prima parte è stata, dunque, la presentazione di una serie di nove brani vocali da camera piuttosto famosi, delle mélodies che avranno fatto la gioia di tante “signorine Felicita” d’oltralpe cent’anni fa, dove i temi consueti dell’amore, della natura quale paesaggio sentimentale e dei quadretti più o meno esotici si dipanano tra versi e musica di una leziosità al limite dello stucchevole. Anche l’autore più interessante di tutti nell’ambito della vocalità cameristica, Claude Debussy, è stato presente in quella raccolta postuma delle “Quattro canzoni giovanili” che stanno appena prima del raggiungimento dei primi grandi esempi di stile vocale personale, i brani sui testi di Baudelaire e le “Ariettes oubliées” da Verlaine.
Il giudizio globale sul concerto è positivo unicamente per la prestazione vocale decisamente coinvolgente di Jessica Pratt, a cui natura e studio hanno dato una bella voce molto estesa e facile, anche se di un volume piuttosto limitato nella zona centrale, perfettamente a suo agio nel settore acuto, sia nei fraseggio lirico colorato da splendide filature che nel virtuosismo d’agilità di origine belcantistica. Quello che mi ha deluso è che un’artista di questa levatura e talento si sia presentata al pubblico di Firenze con lo spartito sul leggio sia per la parte cameristica (di certo prassi non elegante ma purtroppo ormai sempre più in voga, basti ricordare a giugno la lettura dei Wesendonck-Lieder della Antonacci o il Dichterliebe di Markus Werba al Goldoni per il Maggio Musicale) che per la parte operistica (addirittura!). Il sospetto che questo sia stato dovuto a una preparazione sostanzialmente superficiale me lo hanno confermato alcuni errori di lettura nel testo poetico non disgiunti da una certa quota di problemi di dizione della lingua francese. Ma anche, e soprattutto, il fatto che si è trattato in pratica di un concerto di “romanze senza parole”: l’atteggiamento di Jessica Pratt nei confronti di questi testi poetici è stato di un totale distacco, come se il porgere parole e il raccontare emozioni fosse delegato soltanto allo spirito della musica e al suo occasionale “affetto”. Mi è venuta in mente l’opera “Capriccio” di Richard Strauss, dove la contesa senza fine sul primato del testo o della musica si risolve metaforicamente nelle due figure degli spasimanti della Contessa Madelaine, il musicista Flamand e il poeta Olivier. Nella famosa scena finale, la donna confessa a se stessa di non poter scegliere tra i due: il Lied che le hanno dedicato è fatto della materia profondamente coinvolgente delle splendide parole del poeta a cui però la musica sa dare un’energia, una fiamma, che crea un capolavoro nuovo e in cui le due arti si fondono perfettamente. Per Jessica Pratt evidentemente Olivier non meritava lusinghe al pari di Flamand. Per lei vince la musica, anzi la voce.
Se il repertorio vocale da camera viene a mancare di un minimo di interesse per il testo sia nella sua dizione che nella sua articolazione può diventare mortalmente noioso. Ciò non è successo stasera dato che la maggior parte dei brani sono stati molto poco “cameristici” sia nell’ispirazione dello stesso compositore che nell’interpretazione del duo Pratt-Scalera. Il brano di Jules Massenet “Ouvre tes yeux bleus” ha un ampio fraseggio molto sostenuto e lirico che è uscito molto bene nella generosa vocalità del soprano e nelle sonorità squillanti del pianista: il fatto che si tratti di un dialogo d’amore tra un “lui” ed una “lei” non è stato capito da entrambi e, penso, di conseguenza dal pubblico, a cui gli Amici della Musica di Firenze hanno fornito i testi originali ma non le traduzioni. Un’ottima intesa musicale dei due artisti ha permesso alla “Sérénade” di Charles Gounod di diventare uno dei più bei risultati musicali della serata: le dolci e sinuose curve melodiche della splendida linea vocale hanno trovato nella Pratt l’ideale interprete per una sicura tecnica di filati, capace di iniziare piano la prima strofa e ridurre progressivamente e la sonorità e l’andamento delle altre due, per cui la terza ha avuto una leggerezza eterea raramente raggiungibile. Bravi! Proprio per questo mi aspettavo di più nel grande notturno di Alfred Bachelet “Chère nuit”, di una certa ispirazione wagneriana nei suoi andamenti armonici cromatici e nella sua tesa linea vocale che deve poter passare da un suono pieno e rotondo nel registro medio a filature improvvise delle note acute. Per rendere bene tutto questo è importantissima la condotta musicale della parte pianistica (evidentemente di ispirazione orchestrale): Vincenzo Scalera ha suonato il brano sempre rilanciando in avanti i tempi e togliendo così alla voce quei momenti di “limbo” ritmico di alcuni tipi di rubato, delle cerniere tra un periodo musicale e l’altro, che sono la sede della creazione dei migliori colori vocali. Questa tendenza a portare all’estremo i tempi veloci o gli accelerando si è evidenziata in maniera drammatica nella raccolta delle “Quatre chansons de jeunesse” di Claude Debussy. Nonostante la scrittura vocale sia quella tipica del soprano di coloratura, specie nel primo e nel terzo brano, la scelta del compositore non è il virtuosismo tour court di volatine e suoni picchettati: questo tipo di fraseggi sono funzionali alla resa dei testi ironici e vivaci su cui si basano. Se da una parte per eseguirli il più velocemente possibile il testo deve essere reso incomprensibile da biscicature e suoni inarticolati, dall’altra non abbiamo neppure la compensazione di godere di una pirotecnica cabaletta, dato che Debussy accenna sì a quello stile ma se ne tiene più prudentemente lontano che i due interpreti. Non a caso il tempo di “Pantomime” è segnato un allegro moderato… E ancor più evidente risulta l’accelerazione non richiesta del terzo brano, basato su un temino popolare in Francia famoso come da noi quello del “girotondo”. Anche solo canticchiare al doppio della velocità il “girotondo” risulta innaturale; immaginiamo la canzoncina “Au clair de la lune, mon ami Pierrot…” che non ha neppure la scusa del ritmo di danza del motivetto italiano. Quindi, il risultato musicale ottenuto è stato tutta una serie di veloci passaggi ma nessuna idea dell’ironico sberleffo al mondo e alle figure di una commedia dell’arte stereotipata in figure di “cariatidi”. Questa prima versione del famoso testo di Verlaine “Clair de lune” (messo in musica da numerosi altri compositori francesi, tra cui Fauré) ha un carattere leggero e leggermente frivolo, che perderà definitivamente nella bellissima seconda versione che si ascolterebbe nella raccolta debussiana delle “Fêtes galantes”, e quindi ben si sposa ad una lettura puramente belcantistica del duo Pratt-Scalera, mettendo in evidenza le qualità timbriche della bella voce del soprano e del suono brillante del pianista. Tuttavia, “Apparition” non ha nulla di leggero e solo puramente descrittivo di “Clair de lune”, ha invece la stessa lirica effusione di un’aria come “Depuis le jour” dalla “Louise” di Charpentier. Andrebbero valorizzati, perciò, i rubati in ritardando e non solo quelli in accelerando, in una vocalità più piena e sonora da soprano lirico. Un’occasione persa, quindi, da parte del soprano che avrebbe tutte le caratteristiche timbriche e tecniche per rendere in maniera impeccabile questi quattro brani e che, invece, ne ha offerto una lettura superficiale e puramente “ad effetto”: nessuna meraviglia che il pubblico abbia voluto applaudire alla fine di ciascuno. Di contro è stata perfettamente a proprio agio per una esecuzione veramente da manuale del brano “Villanelle” di Eva Dell’Acqua. Questa canzone necessita di una interprete dotata di tecnica ed estensione in acuto ben sicure per rendere interessante (almeno da un punto di vista vocale) questa melodia e questo testo di una banalità disarmanti. Jessica Pratt ne ha fatto qualcosa di molto affascinante proprio per aver tolto al testo qualsiasi articolazione e rendendola così qualcosa di più vicino ad un vocalizzo del Concone o del Panofka, quelli che si portano al diploma di canto. Anche il gioco di parole e doppi sensi che esiste nel quadretto esotico spagnoleggiante “Les Filles de Cadix” di Léo Delibes è stato lasciato in totale secondo piano rispetto alla spumeggiante vocalità che si innesta dentro un bolero pieno d’energia. Un buon esercizio di agilità brillante.
Pure le prime due delle tre grandi arie presentate nella parte finale sono state carenti di incisività di articolazione del testo e quindi senza energia nelle pagine più drammatiche. Se il virtuoso canto puramente descrittivo della Regina Marguerite da “Les Huguenots” di Giacomo Meyerbeer può reggere anche ad un’altra esecuzione da puro vocalizzo di suoni dolcissimi (dove l’arte vocale della Pratt è davvero notevole) che però delega allo spettatore il dovere di leggersi il libretto prima di andare a teatro per capirci qualcosa, non si può certo sostenere di presentarsi al pubblico italiano con una esecuzione del recitativo di Mathilde dal “Guillaume Tell” di Gioachino Rossini talmente lontana da qualsiasi elemento di articolazione almeno delle sillabe toniche. E pure l’esecuzione da parte del duo della meravigliosa aria “Sombre forêt” evita inspiegabilmente qualsiasi puro fraseggio romantico fatto di alternarsi di rubati e incalzando che serve, prima che a far sentire dei bei suoni, soprattutto a dare valore a quel ripetersi dell’espressione di dolore e struggimento, come un’eco sia nel testo che nella musica. Decisamente migliore e più matura l’esecuzione della grande scena della pazzia di Ofelia da “Hamlet” di Ambroise Thomas. In questo brano oltre alla splendida esecuzione tecnico-vocale che aveva caratterizzato i due numeri precedenti, si è sentita anche una dimensione teatrale sinceramente partecipata da entrambi gli artisti. Il pianista Vincenzo Scalera, che si era tenuto in Meyerbeer e Rossini abbastanza “cauto” a non porsi troppo in evidenza, nella scena di Ofelia ha creato fraseggi e dinamiche molto interessanti, evocativi ed emozionanti, porgendo così alla primadonna una tavolozza di colori da cui farsi ispirare per una esecuzione emozionante e coinvolgente. Due bis sono stati concessi, con riconfermata generosità vocale (e, finalmente, a memoria!) da parte di Jessica Pratt: la grande aria di Linda, “O luce di quest’anima” da “Linda di Chamonix” di Gaetano Donizetti e aria e cabaletta finale di Amina da “La Sonnambula” di Vincenzo Bellini. E il pubblico degli Amici della Musica di Firenze ha contraccambiato con una serie di calorosi applausi ed una lunga standing ovation.