“Rigoletto” al Teatro Regio di Torino

 Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2013-2014
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Rigoletto  DEVID CECCONI
Gilda  BARBARA BARGNESI
Il duca di Mantova   PIERO PRETTI
Sparafucile  ALEKSANDR VINOGRADOV
Maddalena  SILVIA BELTRAMI

Giovanna  MARIA DI MAURO
Il conte di Monterone  FABRIZIO BEGGI
Marullo  RYAN MILSTEAD
Matteo Borsa  LUCA CASALIN

Il conte di Ceprano  DAVIDE MOTTA FRÉ
La contessa di Ceprano  IVANA CRAVERO
Un usciere di corte  LORENZO BATTAGION
Il paggio della duchessa  RITA LA VECCHIA
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore  Donato Renzetti
Maestro del coro  Claudio Fenoglio
Regia e luci  Fabio Banfo
Ripresa della regia e movimenti coreografici  Anna Maria Bruzzese
Scene  Luca Ghirardosi
Costumi  Valentina Caspani
Luci riprese da  Andrea Anfossi
Direttore dell’allestimento  Saverio Santoliquido
Allestimento del Teatro Regio di Torino 

Torino, 22 ottobre 2013 

«Ma tutto ora scompare… / l’altare si rovesciò!». Tre sole recite fuori abbonamento di Rigoletto, per una stagione che si è aperta nel segno verdiano (con Simon Boccanegra), e che alterna in questi giorni anche altri titoli importanti (La Traviata), giusta la ricorrenza ottobrina del bicentenario esatto. La compagnia vocale è costituita di interpreti ben noti ai frequentatori del teatro torinese, il direttore è un esponente tra i più seri e affidabili della concertazione lirica, e l’allestimento è quello che il Regio produsse per la stagione 2010-2011, dopo aver bandito apposito concorso per un progetto di regia sul titolo della “trilogia popolare”.  
L’avvio del preludio è terribile: attacchi imprecisi, ottoni scoordinati, micro-stonazioni, che sembrano preludere a una serata faticosa e nefasta, nata sotto cattiva stella. E invece, dopo poche battute, come un motore che smetta improvvisamente di “perdere colpi”, il macchinario orchestrale guidato da Donato Renzetti riguadagna la precisione, l’intonazione, il tempo giusto e un complessivo equilibrio sonoro che non verrà mai meno. Potrebbe essere pleonastico parlare della professionalità, dell’accuratezza, dello scrupolo esecutivo di un direttore di vastissima esperienza come Renzetti; ma sarebbe riduttivo e ingiusto liquidare la sua concertazione con la locuzione della “buona routine”. In realtà egli compie una serie di scelte importanti, anche originali, eventualmente non condivisibili, eppure denotanti una precisa visione dell’opera. Anziché la concitazione drammatica, per esempio, Renzetti predilige l’eleganza del discorso musicale; in luogo del brio, il particolare coloristico. Tali opzioni permettono di apprezzare molto bene la bellezza e la ricchezza armonica della partitura di Rigoletto, le melodie e le architetture vocali; meno percepibili il versante noir, le ambiguità d’ambientazione notturna, il ritmo incalzante che conduce alla tragedia (anche perché una delle evidenti finalità dei tempi rilassati è la facilitazione dei cantanti). Il fautore della drammaturgia può restare deluso, e rimproverare mancanza di nerbo, ma chi voglia studiare il dettaglio della scrittura orchestrale verdiana e gustarne le preziosità ha di che rallegrarsi. Uno dei momenti più significativi di tale ambiguitas direttoriale è il duetto baritono-soprano del I atto, in cui l’intensità drammatica risalta meno della sontuosità orchestrale, in un accompagnamento tanto raffinato quanto compassato (si direbbe quasi di gusto neoclassico, cioè di ascendenza rossiniana, secondo un’antica predilezione di Renzetti).
Piero Pretti è l’artista vocale migliore della compagnia: la voce è assai bene impostata, anche se piccola (specie su un palcoscenico immenso come quello del Regio, ancorché limitato dalla barriera di porte e di blocchi scorrevoli della regia, che evitano ulteriore dispersione del suono). Il timbro vocale è brunito, forse anche un po’ troppo per il duca di Mantova, ma il colore è bilanciato dalla freschezza giovanile della voce; negli acuti si percepisce un leggero sforzo, forse anche nel timore di giungere indenne al termine della ballata «Questa o quella per me pari sono» (o, nel III atto, della canzone «La donna è mobile»). In realtà il tenore è molto abile, e si disimpegna bene in ogni numero della sua parte, migliorando progressivamente: come a quasi tutte le voci giovani, gli giova il “riscaldamento” di atto in atto, per cui dà il meglio di sé a partire dal cantabile «Parmi veder le lacrime» (tutto sul fiato, con bell’acuto finale), e poi nel III atto. Le agilità, però, non sono sempre dettagliate con precisione, e lo squillo – che si richiederebbe soprattutto in «La donna è mobile» – manca.
Non appena compare sulla scena, alto, spavaldo, senza gobbe, Devid Cecconi (appena ascoltato nel ruolo di Paolo Albiani del Boccanegra) sembra più il conte di Monterone o Sparafucile, che non Rigoletto; se il suo declamato tende un po’ troppo al parlato, e all’abbandono dell’impostazione della voce in maschera, l’ambizione attoriale ed espressiva compensa parzialmente. Spesso la linea di canto è però troppo aggressiva, oppure indulge ai portamenti, e negli acuti il suono si fa intubato e stucchevole, a partire da una voce che, per natura, non è né ricca di armonici né centrata su di un timbro con caratteristiche riconoscibili, bensì piuttosto incolore. In «Veglia o donna» si percepisce un registro vocale disomogeneo, spezzato nelle varie altezze; e forse il cantante stesso se ne accorge, perché tradisce un certo imbarazzo nella tenuta del suono: spesso Cecconi anticipa le note successive, o accorcia indebitamente la durata di un suono per procedere con più rapidità. «Cortigiani, vil razza dannata» non è soddisfacente, in quanto cantato con voce schiacciata e intubata; migliore il duetto successivo con Gilda (anche se le due puntature finali, di baritono e soprano, sono decisamente brutte; nonostante tutto, il pubblico tributa un’ovazione agli interpreti).
Barbara Bargnesi è una Gilda dalla voce garbata, delicata, duttile nell’integrarsi sia a quella del baritono sia a quella del tenore nei due duetti consecutivi all’interno del I atto. Il pubblico del Regio la ricorda come Despina nel Così fan tutte dell’aprile dell’anno scorso, e come Carolina nel Matrimonio segreto di marzo; rispetto a tali ruoli, Gilda costituisce un notevole salto di repertorio. La Bargnesi canta molto bene «Caro nome», con un convincente grado di delicatezza; soltanto gli acuti risultano privi della giusta intensità e non sorretti da sicura emissione. Gestisce con grande naturalezza, ed è bellissimo momento teatrale quello in cui il coro mascherato ordisce il rapimento, e la fanciulla fa volare ingenuamente una palla di carta sullo sfondo della scena.
Fabrizio Beggi è un ottimo Monterone (ruolo che alterna in questi giorni al Pietro del Simon Boccangra, e sempre con esito molto positivo): voca chiara, ferrea, corposa; soltanto negli acuti il timbro di stempera un poco (secondo un fenomeno pressoché universale). Altro basso molto valido è Aleksandr Vinogradov, le cui caratteristiche vocali non sono troppo dissimili da quelle di Beggi: dalla voce sicura, di timbro abbastanza chiaro, s’impone adeguatamente nel duetto del I atto con Rigoletto, così come nel III; quando Vinogradov è sulla scena, la presenza vocale più autorevole è senza dubbio la sua. Maddalena è interpretata da Silvia Beltrami, la cui voce abrasiva si contrappone bene a quella del soprano, ma il cui effetto risulta un po’ greve; comunque sia, anche per suo merito, il quartetto «Bella figlia dell’amore» risulta, come spesso accade nelle recite di Rigoletto, il brano d’insieme più persuasivo e meglio riuscito di tutta l’opera.
Il nutrito gruppo dei comprimari è in generale all’altezza della situazione, ma non si può tacere il rozzo parlato di Davide Motta Fré (conte di Ceprano) né l’incomprensibilità della dizione di Maria Di Mauro (Giovanna) né l’inconsistenza d’emissione di Rita La Vecchia (paggio della duchessa). Ottima invece la prova del coro, sia “in presenza”, all’interno dei primi due atti, sia nei vocalizzi della scena della tempesta nell’ultimo. L’allestimento è quello, ormai più volte collaudato, del trio Banfo-Ghirardosi-Caspani, dominato da una massiccia struttura scenica, sotto forma di grandi porte disposte sulla stessa linea (I e II atto) oppure di blocchi architettonici che rappresentano da angolazioni differenti la casa di Rigoletto e poi quella di Sparafucile. Un impianto certamente funzionale, semplificante (nel bene come nel male) le puntigliose e farraginose indicazioni librettistiche di Piave (specie per il II quadro del I atto). Il III atto è quello registicamente più significativo, con lo skyline di Mantova sullo sfondo, e la casa di Sparafucile stilizzata da forme massicce e casse da trasporto in primo piano. I costumi e le luci sono in perfetta sintonia, nella direzione della semplicità e della geometrizzazione disadorna (non c’è mai sfarzo ostentato, neppure nei quadri al palazzo ducale; c’è piuttosto un interessante studio sull’oscurità degli sfondi e sulla gestualità dei personaggi, non convenzionale soprattutto per il protagonista). Anche la linearità complessiva è motivo di soddisfazione  e di apprezzamento per il pubblico, che interviene con applausi convinti al termine di ogni numero, come nella migliore delle tradizioni esecutive della “trilogia popolare”.