Verona, Teatro Filarmonico – Stagione Opera e Balletto 2013/2014
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Mustafà MIRCO PALAZZI
Elvira ALIDA BERTI
Zulma ALESSIA NADIN
Haly FEDERICO LONGHI
Lindoro DANIELE ZANFARDINO
Isabella MARINA DE LISO
Taddeo FILIPPO FONTANA
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Armando Tasso
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Allestimento del Circuito Lirico Lombardo
Verona, 2 Febbraio 2014
Il collaudato allestimento de “L’italiana in Algeri” di Gioachino Rossini firmato da Pier Luigi Pizzi approda, festeggiato dagli applausi del numeroso pubblico accorso, sul palcoscenico del Teatro Filarmonico di Verona. Effettivamente, lo spettacolo ideato e realizzato da Pizzi non conosce alcuna smagliatura sia nel raccontare la buffa vicenda, sia nell’evocare tramite un impianto scenico in Technicolor, l’atmosfera speziata di un’Africa Mediterranea la cui visione è filtrata dal gusto per il grande Varietà del secolo scorso. Per ulteriori dettagli sulla parte scenica, è possibile consultare la recensione pubblicata nel Novembre 2012, quando questo stesso allestimento (con altro cast ed altro direttore) riscosse il medesimo successo presso il Teatro Grande di Brescia.
Alla guida dei complessi areniani, il giovane direttore Francesco Lanzillotta si distingue da subito per la costante ricerca di un suono leggero e vaporoso che, nella maggior parte delle situazioni, ottiene senza difficoltà da parte di un’orchestra attenta e ben calibrata. Il maestro si dimostra altresì versato nell’accompagnare i cantanti, grazie ad un gesto composto ed autorevole.
Marina De Liso è un’Isabella scenicamente disinvolta, caratterizzata da un’autoironia che si apprezza con piacere e dotata di una personalità esuberante. Purtroppo, la voce in sé non possiede le caratteristiche del contralto rossiniano, né a livello prettamente timbrico, né per quanto concerne l’estensione. Il “Cruda sorte”, ad esempio, la vede molto a mal partito: un vibrato aspro e molto irregolare scompatta tutta l’emissione nella quale emerge la classica suddivisione nei tre tronconi. Il registro centrale è poco sonoro e, in alcuni momenti, dà come l’impressione di essere scollegato dal sostegno del diaframma. Le note gravi, numerose ed impegnative in questo ruolo, vengono risolte con aperture di petto sgradevoli che sortiscono sovente un effetto discutibile. La situazione migliora nel settore acuto, dove (forse per la naturale appartenenza di fondo della De Liso alla corda sopranile) i suoni s’incanalano in una direzione più consona e riescono a viaggiare nella maschera. Naturalmente, la navigata professionalità della cantante non manca di farsi valere ed è così che la performance sale di tono in corso d’opera. La sezione cantabile di “Per lui che adoro”, (complice l’accompagnamento pizzicato degli archi che evita forzature nel canto della De Liso), risulta suadente nelle intenzioni e discretamente morbida nell’emissione, mentre il rondò conclusivo, pur non centrando il bersaglio della catarsi virtuosistica, viene svolto e portato alla conclusione con sufficiente correttezza.
Mirco Palazzi realizza un Mustafà insolitamente giovane ed attraente, sottraendo così la figura del Bey a quell’immaginario che lo identificherebbe quasi con la versione comica e maldestra di Barbablu. La bella voce di vero basso cantante fa leva su di un’emissione che si mantiene compatta ed omogenea in tutta la gamma. Qui al suo debutto in un ruolo che il compositore pesarese infarcisce di agilità, il giovane basso rivela inoltre una spiccata predisposizione a questo tipo di scrittura, come dimostrano gli esiti più che buoni raggiunti nella scena d’ingresso e, soprattutto, nell’aria “Già d’insolito ardore nel petto”.
Il tenore Daniele Zanfardino fa esprimere lo schiavo innamorato con una vocalità davvero troppo evanescente, anche per un ruolo tradizionalmente affidato a tenori leggeri o leggerissimi. Ciononostante, il peso specifico del suo strumento sarebbe passato quasi inosservato se, a sostenerlo, fossero state presenti all’appello un’intonazione irreprensibile ed una linea di canto inappuntabile. Musicalmente molto incerto, difatti, questo Lindoro e nemmeno riscattato da una presenza scenica che resta impressa nella memoria.
Nel ruolo buffo di Taddeo, il baritono brillante Filippo Fontana è più che lodevole per la misurata comicità che lo contraddistingue: il suo personaggio convince e diverte senza eccessi. Come cantante, poi, Fontana non può forse sfoggiare altrettanta stoffa, anche se la sua prova non soffre particolari cedimenti e, anzi, si corona di due sol acuti davvero notevoli nella nomina del Bey a Pappataci.
Bravissimo Federico Longhi nei panni di Haly: voce di buon volume, sicuro nei recitativi (sempre a fuoco e ben comprensibili) e nell’esecuzione dell’aria “Le femmine d’Italia”.
L’Elvira di Alida Berti si segnala per il contributo più che positivo alla riuscita del finale primo, al contrario della Zulma sotto tono di Alessia Nadin. Molto buono l’apporto del coro, sollecitato particolarmente anche sotto l’aspetto scenico. Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona