Verona, Arena Opera Festival 2014
“TURANDOT”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
La PrincipessaTurandot IRÉNE THEORIN
L’ Imperatore Altoum ANTONELLO CERON
Timur, re tartaro spodestato MARCO VINCO
Il principe Ignoto (Calaf), suo figlio WALTER FRACCARO
Liù, giovane schiava MARIA AGRESTA
Ping, gran cancelliere MATTIA OLIVIERI
Pong, gran provveditore FRANCESCO PITTARI
Pang, gran cuciniere SAVERIO FIORE
Un mandarino GIANFRANCO MONTRESOR
Orchestra, Coro e Corpo di ballo dell’Arena di Verona
Coro di Voci bianche A.d’A.MUS.
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Armando Tasso
Voci bianche dirette da Marco Tonini
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Emi Wada
Lighting designer Paolo Mazzon
Coreografia Maria Grazia Garofoli
Verona, 5 luglio 2014
Pubblico purtroppo non proprio numeroso per questa Prima di Turandot all’Arena di Verona. La performance non parte sotto i migliori auspici: il povero Mandarino (il veronese Gianfranco Montresor, una voce davvero interessante) deve annunciare al popolo la condanna a morte del Principe di Persia in una situazione non esattamente ideale: mezza platea deve ancora trovare posto e la corrispondente agitazione del popolo cinese sul palco non aiuta a concentrare l’attenzione sulle voci. Il “tarantolato” Daniel Oren, il cui pulsante carisma è coinvolgente tanto per l’orchestra quanto per il pubblico (che lo accoglie sempre con singolare affetto), sembra talvolta, col suo gesto estremamente scenografico, volersvegliare un dragone agonizzante frustandolo; espediente che, a causa della dispersione degli spazi areniani, può funzionare solo mantenendo altissima la tensione. A lungo andare questo sovraccarico nervoso costringe in diverse occasioni il direttore a dover prediligere le proprie scelte dinamiche (sempre molto filologiche e intelligenti) sull’insieme dell’orchestra. Oren tira fuori il meglio dagli archi, soprattutto nell’ atto III, tiene alta l’attenzione dei legni, tenta di sedare ottoni non sempre eleganti.
La scenografia di Franco Zeffirelli, concentrata in uno spazio relativamente esiguo nel corso del primo atto, regala sempre brividi nel momento in cui si aprono i pannelli che coprono l’immensa reggia dorata dell’Imperatore. Purtroppo sulla buona riuscita dello spettacolo gravano scelte registiche e coreografiche che non rendono giustizia a una scenografia tanto feconda; per essere sintetici: troppi ventagli e poca attenzione alla gestualità dei principali interpreti, che non sembrano a proprio agio nella gestione dello spazio scenico e sono pertanto costretti a seguire schemi convenzionali e stereotipati.
A partire dalla wagneriana Iréne Theorin, una Turandot resa ancora meno credibile dai costumi ingombranti: la crudele principessa posseduta dal fantasma dell’ava sarebbe forse risultata più verosimile in una mise meno ieratica. In ogni caso l’abito non fa il monaco e per la Theorin In questa reggia sarebbe stato comunque un inizio piuttosto deludente: anche volendo giustificare la durezza dei suoni e il colore costantemente spinto e uniforme come una scelta interpretativa, non possiamo ignorare che il gelo di Turandot poteva essere ottimamente espresso con una cura più attenta della zona centrale e un legato più filologico. Paradossalmente il soprano svedese migliora nell’ultimo duetto (quello di Alfano) ma la pronuncia rimane incomprensibile, i suoni urlati e il fraseggio impreciso. Un vero peccato, per uno strumento dalle potenzialità davvero eccellenti. All’opposto Maria Agresta si riconferma una Liù d’eccezione fin dal suo Signore ascolta: Oren la segue senza forzare, e ne asseconda il fraseggio ben calibrato. La voce è in splendida forma e per quanto la pronuncia non sia sempre perfetta la qualità dei suoni rimane altissima, nelle tessiture più gravi come nei filati. Ottimi i passaggi di registro e commovente Tu che di gel sei cinta. La performance di Walter Fraccaro (Calaf), chiamato a sostituire Carlo Ventre, non parte benissimo: la pronuncia è buona ma sempre molto larga e c’è qualche accento fuori luogo nella zona centrale. Ma Fraccaro è un diesel e il miglioramento nel corso del II atto è netto. Certo, gli acuti sono più spinti che squillanti e l’interpretazione non desta particolare commozione, ma il fraseggio è ottimo. Encomiabile la prestazione di Marco Vinco, il re tartaro spodestato Timur: persino nel ruolo di un vecchio infermo e cieco Vinco riesce a muoversi in scena con più passione e coinvolgimento di tutti gli altri interpreti. La voce è potente, la zona acuta saldissima e la pronuncia impeccabile. Davvero bravo. Tra i tre ministri spicca il Ping di Mattia Olivieri: bei legati centrali e sicuro fraseggio nella zona acuta. Precisa la pronuncia di Francesco Pittari (Pong) e buona tessitura centrale per Saverio Fiore (Pang). In Non v’è in Cina per nostra fortuna non sempre l’insieme con l’orchestra è preciso, ma alla fine la reggia si apre e tutto viene dimenticato. Antonello Ceron, l’Imperatore ha un bel legato e porta la voce avanti. Ottima la prestazione del Coro, preciso e attento alle dinamiche, preparato da Armando Tasso, e delizioso il Coro di Voci bianche A.d’A.Mus. diretto da Marco Tonini. Foto Ennevi per Fondazione Arena