Victorin Joncières (1839-1903):”Dimitri” (1876)

Opera in cinque atti  e sette quadri, su libretto di Henri de Bonnier e Armand Sylvestre. Philippe Talbot (Dimitri), Gabrielle Philiponet (Marina), Nora Gubisch (Marpha), Andrew Foster-Williams (Le Comte de Lusace), Jennifer Borghi (Vanda), Nicolas Courjal (L’archevêque Job), Julien Veronese (Le prieur), Jean Teitgen (Le Roi de Pologne), Joris Derder (Le chef de bohémiens / Un officier), Lore Binon (Une dame d’honneur). Brussels Philarmonic orchestra, Flamish radio choir, Flanders opera Children’s Chorus, Hervé Niquet (direttore). Registrazione: Salle Flagey Bruxelles 15 febbraio /3 marzo 2013. T. Time: 130’00. 2 CD Palazzetto Bru Zane ES 1015

Victorien de Joncières – al secolo Félix-Ludger Rossignol – incarna alla perfezione una certa figura di dilettante colto e preparato che ha avuto un peso non trascurabile nel mondo culturale europeo del XVIII e XIX secolo ancora aperto a figure poliedriche dai molteplici interessi e dalla formazione quando meno eterodossa. Nato a Parigi il 12 aprile 1839 Joncières – lo chiameremo con il nome d’arte scelto come compositore teatrale, non il solo usato da Rossignol nella sua poliedrica attività – proveniva da una famiglia colta e di un certo rilievo nella società parigina del tempo; il padre Auguste-Félix era un noto e apprezzato giornalista, responsabile dell’informazione politica sul quotidiano “La patrie” molto diffuso negli ambienti bonapartisti ed anti-clericali del tempo. Joncières aveva avuto una buona educazione artistica e musicale già in famiglia ed a sedici anni si era iscritto al Licée Bonaparte con l’intenzione di diventare pittore ma al contempo aveva portato avanti gli studi musicali iscrivendosi qualche anno dopo anche al Conservatorio e seguendo i corsi di armonia di Antoine Elwart e quelli di contrappunti di Fernand Leborne. Quest’esperienza sarà fondamentale per la sua evoluzione spingendolo ad abbandonare i propositi di una carriera come pittore per concentrarsi prevalentemente sulla musica sia come compositore che come critico.
Il giovane amatore entra rapidamente nei circoli dei musicisti parigini stringendo amicizia con alcune figure emergenti della scena musicale francese specie fra coloro che puntavano ad un più deciso rinnovamento della scena musicale nazionale come César Franck ed Emmanuel Chabrier; l’incontro con la musica di Wagner sarà poi un’autentica illuminazione e nel corso degli anni Joncières cercherà di farsi apostolo del wagnerismo in terra di Francia. Dal 1871 al 1900 con lo pseudonimo di Jennis svolge attività di critico e commentatore musicale per “La Liberté” dalle cui colonne porterà avanti la sua battaglia per il rinnovamento in chiave wagneriana della musica francese nonché quella a sostegno di molti giovani compositori francesi non necessariamente vicini alla sua impostazione come ad esempio Bizet.
Se il critico manterrà sempre la propria coerenza ideologica il compositore appare al riguardo assai meno fermo nelle sue convinzioni e all’ascolto della musica di Joncières ben poco si riconosce dei tanto amati modelli wagneriani quando un’impostazione fortemente eclettica e in questo molto francese se pensiamo quanto l’eclettismo sia stato il tratto caratterizzante di gran parte della cultura artistica francese della seconda metà del secolo. Il suo stile rifletto quello di un ascoltatore attento e colto, dotato di una visione ampia e complessa del mondo musicale del suo tempo e della cultura musicale francese dei decenni precedenti di cui subisce multiple influenze, che in lui si stratificano portando ad un linguaggio spesso ricco anche se poco personale in cui si sentono gli echi di Berlioz e Meyerbeer come quelli degli amici Chabrier e Franck, suggestioni di Bizet come recuperi di moduli del Donizetti francese.
Come molti dilettanti Joncières non ha conosciuto mezze misure ne passaggi intermedi e si è gettato subito e a capofitto nei generi sommi della grande musica sinfonica e dell’opera lirica di grande impegno, senza passare per prove in generi meno complessi formalmente come la musica da camera, va per altro riconosciuto a Joncières di aver padroneggiato da subito molto bene modi formali così complessi fin dalla prima opera lirica il “Sardanapale” del 1867 mentre in ambito sinfonico va segnalato il buon successo ottenuto con la “Symphonie Romantique” del 1873.
Palcoscenico d’elezione per Joncières fu il Théâtre Lyrique National che per tradizione rappresentava il più aperto alla cultura germanica fra i teatri parigini e con il quale il wagneriano Joncières manteneva ottimi rapporti; tutte le composizioni liriche sono infatti destinate a questo palcoscenico compreso questo “Dimitri” andato in scena per la prima volta il 5 maggio del 1876 e poi ripresentato in una versione rivista nel 1890 sempre nello stesso teatro; l’opera ha rappresentato il maggior successo teatrale di Joncières ma senza riuscire ad entrare stabilmente in repertorio.
L’opera si ricollega formalmente alla tradizione del grand-opéra in cinque atti di soggetto storico di matrice meybeeriana caratterizzato da sontuosità scenica, azione ricca di colpi di scena e ampio spazio a momenti accessori. Rispetto ai modelli canonici l’opera di Joncières appare riportata su modelli ridotti, l’opera stessa ha una durata decisamente inferiore alle proporzioni classiche del genere e i singoli momenti difficilmente superano la durata di qualche minuto pur mantenendo tutti gli elementi archetipici del genere – compreso il balletto con cui si chiude il III atto – seppur riportati come in una scala ridotta. La vicenda è quella del Falso Dmitrij e dell’invasione polacca della Russia agli inizi del XVII secolo che il pubblico avrò presente soprattutto per il “Boris Godunov” di Mussorgskij qui fantasiosamente arricchita di dettagli sentimentali puramente convenzionali.
Questa prima incisione discografica registrata nel 2013 a Bruxelles rientra nel progetto di riscoperta e valorizzazione dell’opera francese del XVIII e XIX secolo che viene meritoriamente portata avanti dalla Fondazione Palazzetto Bru Zane di Venezia. La parte musicale è affidata a complessi belgi come la Brussels Philarmonic ed il Flamish radio choir, Flanders opera rinforzato per l’occasione Children’s Chorus per quanto riguarda le voci bianche il tutto diretto da un collaboratore abituale delle produzioni del Palazzetto Bru come Hervé Niquet specialista del repertorio settecentesco e qui insolitamente impegnato in un titolo della seconda parte del secolo successivo. Niquet si fa però apprezzare anche in quest’occasione portando in un titolo diverso l’abituale rigore stilistico e l’attenzione per i dettagli che abbiamo avuto modo di apprezzare in altre incisioni inoltre se è evidente una preferenza per tonalità terse e leggere forse poco romantiche ma capaci di evidenziare con la massima chiarezza la scrittura musicale; questo fortunatamente non va però a scapito della teatralità che rimane sempre viva e sorretta da un passo deciso inoltre una lettura così trasparente esalta tutti quei momenti di brillantezza elegante e leggera che sono un tratto caratteristico del grand-opéra e che in passato sono stati spesso troppo trascurato in un processo opposto di drammaticizzazione eccessiva di cui questo repertorio è stato oggetto. Molto positiva anche la prova dei complessi corali utilizzati frequentemente e con notevole abilità da Joncières.
La compagnia di canto è composta da artisti che sono frequenti collaborato di Niquet, in linea generale si potrebbe avere la sensazione di trovarsi di fronte a voci troppo leggere per l’opera in questione e più in generale per lo stile dell’epoca però al contempo bisogna riconoscere che i cantanti sono pienamente affiatati fra loro e con il direttore il che crea un perfetto unisono fra tutte le componenti che ha come risultato una lettura in se compiuta e priva di contrasti interni che permette un pieno godimento dell’opera.
Si è già apprezzato Philippe Talbot in incisioni del repertorio francese del settecento e incuriosiva vederlo alla prova in un titolo diverso per cronologia e stile e il risultato è nel complesso più che convincente. La voce è innegabilmente leggera, più da haute-contre che da autentico tenore lirico ed in alcuni momenti si nota con chiarezza la mancanza di un maggior peso specifico di contro è però sicuramente piacevole nella sua luminosità e soprattutto mostra estrema compattezza su tutta la gamma fino ad acuti squillanti e pieni di suono per il tipo di voce in questione. Ovviamente una voce di questo tipo trova i suoi momenti migliori nei passaggi più lirici ed estatici come il duetto con Marina del I atto “Le coeur brisé j’ai fui loin de mon père” colmo di autentica poesia anche per merito della Marina di Gabrielle Philipponet. Il soprano francese si mostra perfetta pienamente inserito nella tradizione francese dei soprani leggeri tanto di moda nella seconda metà del secolo; la Philipponet dispone di una voce estesa e duttile con grande facilità nella salita all’acuto e buone doti nei passaggi di coloratura ma allo stesso tempo mantenendo una morbidezza che spesso sfugge a questo tipo di vocalità, la cavatina del I atto “Pâles étoiles, ô chastes voiles” mostra pienamente le qualità della cantante che nel III atto riesce ad ottenere anche buoni effetti drammatici ad esempio nel bel duetto con Marpha “Pourquoi parler d’espérance?” di sapore ancora tutto meybeeriano.
La parte del Conte di Lusazia è pensata per una di quelle vocalità di baritone noble tanto amate dal gusto francese; Andrew Foster-Williams ne da una apprezzabile lettura; il cantante non aveva convinto appieno in alcune in precedenti incisioni con lo stesso Niquet (come “Semiramis” di Catel ) dov’era impegnato in parti di basso cantante, qui alle prese con un ruolo autenticamente baritonale mostra di trovarsi decisamente più a suo agio mostrando una voce di bel colore, acuti sicuri e timbrati ed una linea di canto sufficientemente nobile ed elegante; la cavatina del II atto “Tsar! Que veux-tu?” si ricollega direttamente alle forme della prima metà del secolo organizzandosi come una classica aria tripartita con recitativo introduttivo, aria con andamento cantabile e rapinosa cabaletta che per stile e gusto non può non rievocare al pubblico italiano la scena di Alphonse de “La favorite” Donizettiana.
La parte di Marpha richiama direttamente il modello della Fides de “Le prophete” seppure su scala ridotta, Nora Goubisch non è un autentico contralto ma un mezzosoprano dalla buona vocalità e dal solido registro grave e in una lettura come quella proposta si inserisce molto bene. Per molti aspetti il III atto – quello che vede Marpha come protagonista – è fra i più convincenti sotto il profilo musicale e la buona prestazione della cantante a giusto rilievo al già ricordato duetto con Marina, a quello con l’arcivescovo o all’aria “Mon fils! Il est mon fils” quasi verdiana nelle atmosfere e che richiede alla cantante anche buone doti di coloratura.  La parte di Vanda è pensata per un mezzosoprano acuto, quasi un Falcon, secondo la contrapposizione fra le voci femminili caratterista del grand-opéra francese; Jennifer Borghi ha una voce decisamente sopranile e non priva di qualche durezza nel settore acuto ma non manca di temperamento e drammaturgicamente rende bene il contrasto caratteriale oltre che musicale fra il suo personaggio irruento e passionale e l’aristocratico lirismo di Marina, l’aria del V atto “Tout à l’heure à cette fenêtre” cerca di evocare un colore di matrice slava.  Fra i due bassi il Priore di Julien Veronese manca un po’ di spessore risultando più baritonale di quanto la parte sembrerebbe indicare, va però segnalata la scena iniziale con il duetto con Dimitri “Le Preur! Vasili!” che non può non ricordare la scena iniziale de “La favorite” mentre di grande autorevolezza vocale e interpretativa si mostra l’arcivescovo Job di Nicolas Courjal in possesso di una voce di autentico basso.  Completano il cast: Jean Teitgen (Il re di Polonia), Joris Derder (Un ufficiale e il capo degli zingari) e Lore Binon (Una dama d’onore). Al termine si può dire tranquillamente che non ci si trova certamente davanti ad un capolavoro ritrovato ma ad un’opera di piacevole ascolto eseguita con estrema corretta e già non è poco.