“Les pȇcheurs de perles” all’Opera di Firenze

Opera di Firenze – Stagione Lirica 2015/2016
“LES PȆCHEURS DE PERLES”
Opera in tre atti di Michel Carré e Eugène Cormon
Musica di Georges Bizet
Léïla  EKATERINA SADOVNIKOVA
Nadir  JESÚS GARCIA
Zurga  LUCA GRASSI
Nourabad  NICOLAS TESTÉ
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore  Ryan McAdams
Maestro del coro  Lorenzo Fratini
Regia Fabio Sparvoli
Scene Giorgio Ricchelli
Costumi Alessandra Torella
Coreografia  Annarita Pasculli
Luci  Vinicio Cheli
Allestimento del Teatro Verdi di Trieste
Firenze, 24 febbraio 2016
Sebbene la deliziosissima opera in un atto Le Docteur Miracle fosse stata allestita quando Bizet aveva soltanto diciannove anni (ricordiamo che il Don Procopio, opera buffa scritta a Roma nel 1859, venne messa in scena per la prima volta soltanto nel 1906), Les pȇcheurs de perles fu il primo (relativo) successo del giovane compositore ventiquattrenne.  E se mostra ben pochi segni della persuasività drammatica di Carmen, scritta una dozzina d’anni più tardi, questa partitura cionondimeno è una cornucopia di melodie ispirate e orecchiabilissime.  La sua popolarità, a dire il vero alquanto alterna dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, è forse dovuta all’incantesimo musicale con cui il compositore pare aver avvolto gli amanti, un tipo di ipnosi erotica che si avverte soprattutto ma non esclusivamente nella popolarissima romanza del tenore e nei suoi duetti con Zurga e Léïla.  Pervade l’intera partitura e confonde le acque, tanto da rendere di non facile interpretazione quale sia la vera coppia all’interno di un altrimenti banale triangolo soprano/tenore/baritono.   Nonostante il successo di pubblico, la critica – con la ben nota eccezione di Berlioz – fu impietosa nei confronti di quest’opera, tanto che sparì dalla circolazione e non fu più ripresa mentre Bizet era ancora in vita.  Dobbiamo alla fame di opere francesi che improvvisamente – complice anche l’editore Sonzogno – attanagliò il pubblico italiano se Les pȇcheurs de perles, o meglio, I pescatori di perle, dopo un felicissimo debutto al Teatro alla Scala iniziarono a girare il mondo in traduzione italiana, e soprattutto in una versione ben diversa da quella del 1863.  Infatti l’editore francese Choudens approntò un paio di edizioni in cui le modifiche finirono per essere sostanzialmente tre: si tolse la cabaletta che concludeva il duetto tenore/baritono del primo atto, sostituendola con una ripresa del tema principale “Oui, c’est elle! C’est la déese”, come se questa melodia, nota appunto come motivo della “déesse”, non comparisse ben altre otto volte, in varie tonalità e accompagnamenti, nel corso dell’opera; si operarono dei tagli all’interno del duetto Léïla/Zurga del terzo atto, vale a dire l’allegro moderato, musica molto innovativa e strutturalmente libera, che rende molto bene l’idea dei primi tarli del dubbio che si fanno strada nella mente di Zurga; la conclusione dell’opera poi fu completamente riscritta da Benjamin Godard, che eliminò il finale “libero” in cui Zurga rimane solo in palcoscenico mentre Léïla e Nadir fuggono intonando la “déesse”, inserendoci invece un terzetto al fine del quale Zurga viene pugnalato da Nourabad (o in alcuni casi giustiziato sul rogo destinato ai due fuggitivi).  L’esecuzione fiorentina oggetto di questa recensione ha inopportunamente mescolato le due versioni; ha fortunatamente mantenuto il finale bizetiano, ma ha operato il brutto taglio nel duetto Léïla/Zurga del terzo atto e ha anche adottato la versione spuria del duetto del primo atto – in modo alquanto incongruente in quanto il ribadire i voti di amicizia perenne dei due personaggi impiega la musica (la solita “déesse”) richiamante alla memoria il motivo dei loro passati contrasti.  In compenso, si è impedito al tenore di concludere la romanza con la cadenza al do acutissimo che Bizet ha scritto solo per il corno in orchestra, cadenza quanto mai priva di gusto e drammaticamente inopportuna in quanto distrugge il senso del lento illanguidirsi dei sensi di Nadir, che infatti si addormenta.  Ryan Mc Adams ha diretto quest’ibrido con ammirevole controllo riuscendo a trovare il delicato equilibrio fra le pagine trasudanti esotico languore e quelle più frenetiche, feroci, incalzanti che spesso nello spartito si susseguono in maniera brusca senza soluzione di continuità.  La parte più problematica dell’opera rimane a mio avviso il finale del primo atto, con l’aria di Léïla che dovrebbe esser intrisa di estatico misticismo e invece sfocia in un frivolo 6/8 non aiutato certamente dalla partecipazione del coro che con il loro ritmo di barcarola fanno piombare il tutto in un’atmosfera da atto veneziano de Les contes d’Hoffmann.  Mc Adams riesce appunto a far passare in secondo piano questi gondolieri mascherati da pescatori singalesi impartendo all’orchestra dinamiche discrete e sommesse.  Si aveva la sensazione che alla pagina più drammatica dell’opera, il duetto fra soprano e baritono del terzo atto, volesse imprimere una maggiore irruenza e alzare il volume, ma come ogni buon direttore che si rispetti, si è reso conto di avere a che fare con due cantanti, e soprattutto il soprano, che da tale vigore sarebbero rimasti sopraffatti.  Léïla era infatti Ekaterina Sadovnikova, soprano dal timbro assai gradevole, morbido, con agilità più checompetenti e dagli acuti sicuri (fino a un bel re sovracuto tenuto a lungo: ha infatti scelto la variante sovracuta della cadenza alla fine del primo atto concluso da un trillo di buona esecuzione).  Ma, per quanto venga spesso affidato a soprani leggeri, Léïla ha in realtà una tessitura molto centrale, addirittura medio-grave, zona piuttosto debole della vocalità del soprano russo: in “Comme autrefois” si sentiva solo il suono del corno, ma è stato soprattutto nel duetto con il baritono del terzo atto, quando Léïla, dopo aver implorato a lungo, perde la pazienza (a tal riguardo, il suo “Venge toi donc” anticipa “Frappe moi donc” di Carmen), che si è sentita la mancanza di incisività e di frustrata disperazione in frasi come “Je te maudis, je te hais”.   Nonostante abbia fatto annunciare un’indisposizione, Luca Grassi non ha mostrato alcun tipo di défaillance vocale, se non una certa qual cautela nel già citato duetto con il soprano; per il resto ha evidenziato la solita tecnica di buona scuola, che gli permette un suono rotondo e ben immascherato, notevole estensione, ottimi acuti (e questa parte ha tessitura davvero alta, martellante sul passaggio e ricca di fa, fa diesis, sol e addirittura un la naturale opzionale che Grassi, come del resto ogni baritono che io abbia ascoltato, ha deciso di non tentare).  In poche parole, un signor baritono, o meglio un Baryton-seigneur, vera e propria categoria di baritoni nata in Francia per indicare un baritono veemente e concitato ove necessario sempre però nei confini di un fraseggio aristocraticissimo.  Jesús Garcia, tenore texano in attività da più di tre lustri, ha debuttato in Italia proprio con questa recita de Les pȇcheurs de perles, opera che ha interpretato spesso nella sua carriera.  Considerata la familiarità con il ruolo, era lecito aspettarsi di più, molto di più.  Non dà piacere scrivere che la prova del tenore americano si è rivelata deludente sotto ogni punto di vista. Poco persuasive sono state le pagine più intime, quali la “Chanson” del secondo atto, e soprattutto “Je crois entendre encor”, in cui gli acuti non erano altro che anemici falsetti privi della capacità di galleggiare e correre per il teatro, e il mi centrale finale abbastanza corto e poco appoggiato; non parliamo poi dei momenti drammatici, come il finale del secondo atto, in cui la voce era completamente sommersa, e anche quelli schiettamente lirici (duetti con Zurga e Léïla), in cui il tenore americano, tenorino leggero dal timbro tra l’altro un po’ ingolato e poco ammaliante, veniva spesso e volentieri coperto dai colleghi.  Di provata esperienza il Nourabad di Nicolas Testé, che ha dato il giusto rilievo a questa parte piccola ma importante.  Il coro del Maggio Musicale Fiorentino, che ha enorme, forse anche eccessiva importanza nell’economia di quest’opera, si è mantenuto sui soliti livelli di eccellenza: fra gli alti e bassi delle traversie passate dall’Opera di Firenze negli ultimi anni, l’eccellenza del coro è sempre rimasta un punto fermo.  Non mi dilungherò più di tanto sull’allestimento di Fabio Sparvoli, giacché si tratta di uno spettacolo che, nato a Trieste nel 2007, ha viaggiato per l’Italia in lungo e largo (Venezia, Parma, Modena, Napoli) accumulando dozzine di recensioni: è per lo più gradevole alla vista, ma non cerca di dare uno spessore psicologico a personaggi che sono già sulla carta piuttosto oberati da cliché e luoghi comuni (uno dei primissimi recensori scrisse che anche in India, come in Europa, i soprani scappano sempre con i tenori: “poveri baritoni, meno amati e meno pagati dei tenori”).  Sarebbe stato soprattutto interessante approfondire la psicologia di Zurga, l’unico dotato di interessanti sfaccettature, e soprattutto il suo ambiguo rapporto con Nadir, personaggio invece, ad onta delle immortali melodie che Bizet gli riserva, egoista ed egocentrico.  Zurga viene inoltre solitamente additato come l’eroe che si sacrifica per la felicità dell’amante (quale dei due, o tutti e due?) e ci dimentichiamo che per facilitar la loro fuga ha incendiato un villaggio mettendo in grave pericolo la vita dei bambini lasciati soli in casa dai pescatori.  Mi pare insomma un personaggio degno di ben altre attenzioni da parte di chi lo porta in scena.  Il pubblico era insolitamente numeroso ma ha accolto lo spettacolo con applausi di circostanza, senza particolare calore ed entusiasmo. Foto Simone Donati