Ennio Porrino (1910-1959): “I Shardana. Gli uomini dei nuraghi” (1958)

Opera in tre atti su libretto di Ennio Porrino. Manrico Signorini (Gonnario), Angelo Villari (Torbeno), Gianpiero Ruggeri (Orzocco), Domenico Balzani (Norbace), Paoletta Marrocu (Berbera Jonia), Alessandra Palomba (Nibatta), Gabriele Mangione (Perdu), Enrico Zara (Un pastore, secondo guerriero), Nicola Pavarino Guagenti (Una voce, primo guerriero), Vittoria Lai (Prima donna), Francesca Pierpaoli (Seconda donna), Caterina d’Angelo (Terza donna), Elena Ledda (Ospite speciale). Orchestra e coro del Teatro Comunale di Cagliari, Marco Faelli (Maestro del coro), Anthony Bramall (Direttore), Davide Livermore (regia), Loic François Hamelin (disegno luci), Marco Nateri (costumi), Davide Mancini (Video director). Registrazione Teatro Lirico di Cagliari, settembre 2013. 1 DVD Dynamic EAN 8007144376833

L’opera, “I Shardana”, del compositore sardo Ennio Porrino è uno dei grandi misteri del Novecento musicale, in quanto, trionfalmente accolta alla prima avvenuta il 21 marzo 1958 al Teatro San Carlo di Napoli, fu poi totalmente dimenticata nonostante gli entusiasmi del musicologo tedesco Felix Karlinger che parlava di quest’opera come del  maggior capolavoro italiano del genere dopo Puccini. Nel settembre del 2013 a Cagliari si è deciso di rimettere al vaglio della scena quest’opera e il risultato è stato quello che in fondo ci si poteva attendere: una giusta via di mezzo fra gli estremi, in quanto non è certo un capolavoro ma sicuramente si tratta di un titolo non privo di fascino e suggestione di certo non meritevole dell’oblio di cui è stato vittima.
Opera breve e intensa, aspra come le fortezze della Sardegna nuragica che gli fanno da sfondo, il lavoro di Porrino mostra un sostanziale ecclettismo; fin dalle prime battute si riconosce la lezione di Respighi di cui il compositore cagliaritano era stato allievo e da cui ha appreso quella raffinatezza nell’orchestrazione che è il tratto più suggestivo della sua musica insieme alla capacità di inserire nel linguaggio ancora tardo-romantico spunti tratti dal folklore sardo e rievocazioni di un’arcaicità totalmente immaginifica ma non per questo meno credibile. Le influenze sono per altro mutevoli: dal Puccini di “Turandot” – quando il popolo nel III atto invoca la rivelazione del nome del traditore – ad Orff (certi corti del I atto) e Stravinskij ma tutto rielaborato con un linguaggio omogeneo e personale. La vocalità è spesso declamatoria pur concedendosi slanci melodici e risente in più punti dei modi propri del canto tradizionale sardo.
La vicenda, cupo dramma di guerra e passioni estreme ambientato in un’immaginaria Sardegna nuragica in lotta contro imprecisati invasori d’oltremare, è asciutto e scabro con poche concessioni edonistiche – per lo più concentrate nella scrittura orchestrale – e proprio dalla brevità del lavoro ottiene una concentrazione di energie quasi barbariche di certo molto coinvolgenti tanto nei primi due atti in cui si condensa di fatto la vicenda quanto nel terzo di natura celebrativa di una ferma identità sarda che di certo non ha giovato all’opera nel clima politico del secondo dopoguerra.
Principale merito della riuscita dell’operazione cagliaritana spetta a Davide Livermore; il regista torinese è spesso incostante tanto nelle scelte stilistiche quanto negli esiti ma qui realizza forse il suo spettacolo più compiuto sotto ogni punto di vista. L’essenziale impianto scenico, una scabra piattaforma inclinata come lo sperone di aggere antico arricchita da pochi altri elementi scenici – tratti di fortificazioni megalitiche nel II atto, un grande scudo rituale nel III –, è vivificato dalle luci e dalle proiezioni che creano effetti di assoluta suggestione, dal grande mare che rugge sotto le fortificazioni e che si tinge di rosso al momento del sacrificio di Torbeno e Berbera Jonia alle grandi pietre che come per magia si muovono a costruire i nuraghi durante il preludio al II atto. La regia è statica, solenne, ieratica come una liturgia ancestrale mentre la parte dinamica è affidata ad un ampio complesso di mimi e ballerini che fanno vivere la vicenda intorno alla sacralità lontana dei protagonisti. In linea i costumi direttamente ispirati ai bronzetti nuragici e fortemente connotati in chiave rituale con la sola eccezione delle tre donne e del cantore Perdu in abiti moderni – o meglio negli abiti del folklore sardo contemporaneo –; appaino le prime intente a tessere fili invisibili o a muovere sabbie impalpabili come fossero le Parche o le Norne, mentre Perdu si presenta come l’incarnazione di una continuità storica dei valori fondanti l’identità sarda, come colui che la tiene in vita con il suo canto e con le leggende e tramanda l’ancestralità della cultura sarda che vediamo dipanarglisi intorno.
Spettacolo quindi di grande suggestione che avrebbe meritato una qualità musicale decisamente migliore di quella qui presente. Anthony Bramall crede profondamente in questa partitura e si sente la passione che lo sorregge; i complessi cagliaritani sono dignitosi ma di certo non di livello assoluto.È, tuttavia, innegabile che il direttore li spinga a dare il meglio delle proprie possibilità riuscendo a rendere la raffinatezza della scrittura orchestrale di Porrino e la forza ritmica che pervade l’opera.
Nella compagnia di canto emergono la Berbera Jonia di Paoletta Marrocu; voce solida, robusta di bel colore e dalla corretta linea di canto cui nuoce solo qualche durezza sugli estremi acuti compensata ampliamente dalla convinzione interpretativa che dimostra nell’intero ruolo della straniera tentatrice e fatale, una sorta di misteriosa Dalila venuta da un Oriente indefinito e già nel nome porta i segni delle due grandi ondate coloniali che fra la fine dell’età del bronzo e gli inizi di quella del ferro si riversarono sulle contrade tirreniche: quella fenicio-punica (Berbera) e quella greca (Jonia). Vanno segnalati, inoltre, il Norbace di forte rilievo di Domenico Balzani e la luminosa vocalità di Gabriele Mangione nei panni dell’aedo pastore Perdu il cui canto in apertura del II atto è fra le pagine più ispirate dell’opera nelle sue suggestioni arcane. Il resto del cast è alquanto alterno, dal momento che il ruolo del patriarca Gonnario richiede un basso baritono nobile e autorevole mentre Manrico Signorini è spesso a disagio in quanto il nobilissimo canto che apre nel III atto il grande inno corale alla civiltà sarda richiederebbe una voce a fior di labbro mentre si ascolta una linea di canto alquanto forzata. Angelo Villari (Torbeno) dispone di un materiale interessante ma non sempre controllato a dovere così che i bei duetti con Berbera Jonia – più lirico il primo, più intenso e drammatico il secondo – non riescono ad avere una completa realizzazione espressiva. Teatralmente efficace  ma non sempre centrata vocalmente la Nibatta di Alessandra Palomba e piuttosto anonimo  l’Orzocco di Gianpiero Ruggeri. Di contro molto brava è Elena Ledda che nel III atto compare – come una sorta di visione – ad interrompere la vicenda con un lamento rituale in lingua sarda musicalmente suggestivo ed eseguito con grande maestria. Corrette le parti di fianco.