Cronache del MI.TO.: “Il diluvio universale” di Michelangelo Falvetti a Torino

Il diluvio universale, oratorio di Michelangelo Falvetti

Torino, Chiesa di San Filippo – MI.TO. Settembre Musica 2017 – 40a Edizione
“IL DILUVIO UNIVERSALE”
Oratorio per soli, coro e orchestra su testo di Vincenzo Giattini
Musica Michelangelo Falvetti
Noè VALERIO CONTALDO
Rad MARIANA FLORES
Dio MATTEO BELLOTTO
La Giustizia Divina EVELYN RAMIREZ NUÑOZ
La Natura Humana, L’Aria CAROLINE WEYNANTS
La Morte FABIÁN SCHOFRIN
L’Acqua AMÉLIE RENGLET
Il Fuoco THIBAUT LENAERTS
La Terra SERGIO LADU
Cappella Mediterranea
Choeur de Chambre de Namur
Direttore Leonardo García Alarcón
Torino, 4 settembre 2017

La raccolta delle olive è una metafora di pace e concordia civile che unisce il ricordo biblico alle istanze della realtà politica: Vincenzo Giattini ne era ben consapevole, quando scelse di porla a suggello del suo oratorio Il diluvio universale, musicato da Michelangelo Falvetti probabilmente nel 1682, in occasione del suo insediamento quale Maestro di Cappella nel Duomo di Messina. La composizione è grandiosa e magniloquente, nelle tre parti ambientate in cielo, in terra, sull’arca di Noè, con molti personaggi biblici e allegorici in dialogo tra loro, e soprattutto la voce dello stesso Dio che interloquisce con l’umana fragilità, al colmo dello sdegno e poi della pietà. È dal 2010 che il cosmopolita direttore argentino Leonardo García Alarcón diffonde la musica del Diluvio in tutto il mondo insieme alla Cappella Mediterranea, il complesso da lui stesso fondato nel 2005, e al Choeur de Chambre de Namur, di cui ancora García Alarcón è direttore artistico, proprio dal 2010. Una frequentazione così assidua da fare immediatamente percepire all’ascoltatore la facilità, la souplesse, quasi la nonchalance con cui tutti gli artisti coinvolti affrontano la partitura e ne risolvono brillantemente i passaggi più insidiosi. All’interno della grande chiesa torinese di San Filippo risuonano maestosi gli ottoni del prologo in cielo, suscitando grande impressione sia per l’affascinante scrittura musicale sia per la suggestione che discende dagli stucchi barocchi dell’architettura sacra: senza dubbio il miglior scenario oratoriale, anche dal punto di vista acustico per orchestra e coro. Quest’ultimo è straordinario in ogni contributo, ma tocca l’apice nella disperazione dell’ultima parte («Apritemi il varco a la morte»), quando interpreta armonie degne degli spiriti beati di Gluck o delle schiere angeliche della Creazione haydniana. L’ampio spazio della chiesa è meno benigno nei riguardi delle singole voci, i cui esiti non sono uniformi; merita menzionare il contralto Evelyn Ramirez Nuñoz (Giustizia Divina), per le pregevoli note centrali (un po’ fissa, però, l’emissione prolungata); molto buoni il tenore Valerio Contaldo e il soprano Mariana Flores (rispettivamente Noè e la sua sposa Rad): i loro duetti, ora madrigalistici ora schiettamente melodrammatici, formano i momenti vocali più belli di tutta l’esecuzione; Matteo Bellotto (Dio) è un basso dalla cavata un po’ troppo chiara e leggera per garantire il necessario carisma al personaggio che interpreta; il controtenore Fabián Schofrin (Morte) adotta uno stile grottesco e caricaturale, di grande efficacia sul pubblico, ma – a onor del vero – deludente sul piano propriamente vocale, perché intonazione, emissione e linea di canto risultano difficilmente giudicabili. Il successo presso il pubblico di MI.TO. è straordinario: la più capiente chiesa di Torino è gremita di una folla attentissima e plaudente. E a buona ragione: il direttore riesce a mantenere un buon equilibrio nei tempi e nelle sonorità, esaltando tutti gli elementi più moderni della partitura di Falvetti. La Natura Humana, per esempio, è naturalmente aggiornata al prologo del Ritorno di Ulisse in patria (1640) e le sue armonie risentono di un chiaro influsso monteverdiano, sebbene l’intento letterario sia ben diverso («In questo basso mondo / l’uomo puol / quanto vuol. / Tutto fa, tutto fa, / ché ’l ciel del nostro oprar pensier non ha», cantano gli ingenui Feaci di Badoaro navigando verso la loro terra; «[…] il sommo fattor […] / di questa bassa mole / spianò per me le spiagge, i monti eresse; / hor le mie colpe, ah stolta, / pena del mio fallire / entro un mare d’orror piango sepolta», canta invece la Natura Humana contemplando la distesa d’acqua del diluvio). Giattini e Falvetti elaborarono Il diluvio universale quale allegoria della situazione politica di Messina tra gli anni 1678-1680: la città, ribelle al dominio iberico, inizialmente spalleggiata dalla Francia di Luigi XIV ma poi abbandonata a se stessa, aveva appena sofferto le rappresaglie degli spagnoli, ritornati al potere più incattiviti di prima. La musica doveva rappresentare il dramma e la disperazione direttamente vissuti nella vita quotidiana, ma non per questo rinunciò alle sue maliziose prerogative, come quando la Morte, esultando per l’annegamento del genere umano, celebra il proprio trionfo ballando e cantando un’irresistibile tarantella («Ho pur vinto d’un mondo intiero»). La pietà, la ripresa della vita, la pace civile costituiscono il traguardo ultimo degli intenti drammaturgici, nella rappresentazione tanto di Genesi quanto della realtà contemporanea; pertanto echeggia sempre attuale l’ultimo auspicio di Noè: «E a l’albero d’Adamo in me sol vivo / venga a innestar la candida Colomba / pegno di pace il ramoscel d’olivo».   Foto © FLICKR.COM