Parma, Teatro Regio: “Roberto Devereux”

Teatro Regio di Parma, stagione lirica 2018
“ROBERTO DEVEREUX o Il Conte di Essex”
Tragedia lirica in tre atti. Libretto di Salvadore Cammarano, dalla tragedia Elisabeth d’Angleterre di Jacques Ancelot.
Musica di Gaetano Donizetti
Revisione a cura di M. Parenti (Casa Ricordi srl, Milano)
Elisabetta, regina d’Inghilterra MARIELLA DEVIA
Sara, duchessa di Nottingham  SONIA GANASSI
Roberto Devereux, conte di Essex STEFAN POP
Il Duca di Nottingham  SERGIO VITALE
Lord Cecil  MATTEO MEZZARO
Sir Gualtiero Raleigh UGO GUAGLIARDO
Un paggio ANDREA GOGLIO
Un familiare di Nottingham DANIELE CUSARI
Orchestre dell’Opera Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Alfonso Antoniozzi
Scene Monica Manganelli
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Luciano Novelli
Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova, in coproduzione con Teatro Regio di Parma, Teatro La Fenice di Venezia.
Parma, 18 marzo 2018
Roberto Devereux, che con Anna Bolena e Maria Stuarda compone oggi per involontarie coincidenze di soggetto la cosiddetta “trilogia delle regine” donizettiane, non si dava a Parma dall’unica volta in cui vi era apparso in cartellone: correva l’anno 1840 ed era fresco di debutto. A dire il vero, nonostante i consensi iniziali, l’opera non godette di particolari attenzioni per oltre un secolo. Forse, si azzarda, perché non è quel capolavoro con cui lo si è appellato dalla tentata Donizetti-reinassance in poi: composto dal prolifico bergamasco in un periodo a dir poco infausto, paga lo scotto di una struttura troppo convenzionale (e presto superata) non altrettanto supportata da brani memorabili. Il primo atto (qui preceduto dalla Sinfonia che vi appose l’autore dopo la prima) scorre lento e tagliato con l’accetta nella presentazione dei personaggi e dei loro rapporti. Stupisce un po’ che il secondo atto sia una macchina tanto più rapida e ricca di melodia fortunata. Grandioso il terzo, anche grazie agli interpreti della recita in oggetto, il cui fulcro è la scena con aria completa dell’eponimo ma che, per inventiva e distribuzione dei numeri, è imparagonabile al gran finale affidato a Elisabetta. La quale era Mariella Devia, a meno di un mese dai suoi settant’anni, in forma strepitosa, inossidabile: dosa con cautela e parsimonia fiati invidiabili in una linea di canto elegante e ininterrotta: si abbandona a maggiore trasporto (anche interpretativo) nella scena ed aria finale, suggellando in tutto con sopracuto pieno, pulito e di volume sorprendente (tale da far quasi rimpiangere non averlo sentito nelle due ore precedenti). Accanto a lei, come amica e rivale, Sonia Ganassi, interprete appassionata e dal bel timbro scuro, regala una Sara per cui è difficile non simpatizzare, inficiata solo da qualche disomogeneità di registro medio-grave, presto arginata in corso d’opera. Il di lei marito, Nottingham, era Sergio Vitale, le cui doti timbriche sono forse meno seducenti di quelle delle colleghe ma anch’egli interprete partecipe e buon fraseggiatore. Il ruolo del titolo (è dura chiamarlo protagonista) era coperto da Stefan Pop, ben risolto vocalmente (noto e apprezzato esploratore del belcanto, è a un passo dal repertorio più spinto) ma, sarà colpa del testo o della regia o della serata, piuttosto generico nella resa di un Devereux che non fosse una serie di cliché da mezzoforte: un peccato perché lo stesso tenore ha saputo regalare qua e là splendide mezzevoci (del resto è ben difficile prendere sul serio un eroe che sale al patibolo con una gaia cabaletta in la maggiore). Ottime nuove anche i comprimari, Daniele Cusari,  Andrea Goglio e Ugo Guagliardo, tra cui spicca per timbro, volume e musicalità il Cecil di Matteo Mezzaro. L’esecuzione integralissima nei da capo con variazioni era affidata al coro locale, sempre notevole per bellezza e compattezza di suono anche in pomeriggi come questo, istruito da anni da Martino Faggiani, e all’Orchestra dell’Opera Italiana, non immacolata ma dai legni veramente interessanti (disposti a sinistra del Direttore), sopraintesi da Sebastiano Rolli, che per cesellare il particolare offre una prova un po’ disuguale, quasi schizofrenica tra il lirismo delle arie e le code orchestrali improvvisamente un po’ arruffate. La parte visiva dello spettacolo era affidata ad Alfonso Antoniozzi, che per le tre regine (coprodotte da Parma, Genova e Venezia) ha concepito una regia da cantante qual è, e di pregio, per i cantanti: la staticità è evitata ma anche il suo contrario, risolvendo l’azione con gesti plausibili e leggibili (ottima la risoluzione dei McGuffin dell’opera, ossia l’anello e la sciarpa azzurra). Il vero guizzo interpretativo in più arriva nel finale, che mette a nudo meta-teatralmente le luci scese dalla graticcia, primo sintomo del disfacimento cui si assiste: la regina scende dal trono, molla tutto, abbandona persino il palco su cui è stata per gran parte dell’opera (un’alta pedana circolare che richiama lo spazio centrale di un Globe). Le scene semplici, lineari, eleganti e funzionali di Monica Manganelli e le luci belle ed efficaci di Luciano Novelli hanno incorniciato i costumi storici e sontuosi di Gianluca FalaschiIl teatro pieno in ogni ordine ha tributato un caloroso successo a tutti gli interpreti, compreso il Maestro Rolli (molto amato dal leggendario loggione anche se unico destinatario dei pochi dissensi alla ribalta) e ovviamente le due grandi dame Sonia Ganassi e Mariella Devia, accolte sempre da prolungati applausi anche a scena aperta. Il trionfo finale spetta a questa Elisabetta, fenomeno della natura ed esempio di stile: i colleghi ammirati, forse stupefatti, al proscenio scelgono di stare un passo indietro a lei.Foto Roberto Ricci

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