Teatro Filarmonico, Stagione lirica 2017/2018
“MANON LESCAUT”
Dramma lirico in quattro atti di Domenico Oliva e Luigi Illica, con inserti di Marco Praga, Ruggero Leoncavallo, Giacomo Puccini, Giulio Ricordi e Giuseppe Adami
Musica di Giacomo Puccini
Manon Lescaut FRANCESCA TIBURZI
Renato Des Grieux SUNG KYU PARK
Lescaut ELIA FABBIAN
Geronte de Ravoir ROMANO DAL ZOVO
Edmondo ANDREA GIOVANNINI
Un lampionario / Maestro di ballo BRUNO LAZZARETTI
Un musico ALESSIA NADIN
Un oste / Sergente degli arceri GIOVANNI BELLAVIA
Il comandante di marina ALESSANDRO BUSI
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore d’orchestra Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Vito Lombardi
Regia Graham Vick ripresa da Marina Bianchi
Scene Andrew Hays
Costumi Kimm Kovac
Lighting designer Giuseppe Di Iorio
Movimenti mimici Ron Howell ripresi da Danilo Rubeca
Verona, 6 marzo 2018
Ritorna Manon Lescaut come terzo titolo del cartellone invernale areniano nella visione di Graham Vick, dopo il debutto alla Fenice veneziana nel 2010 e proprio al Filarmonico veronese nel 2011. La produzione non era stata accolta troppo positivamente dalla critica né dal pubblico; inaspettatamente questa volta (nell’accurata ripresa di Marina Bianchi) non vi sono stati particolari moti di dissenso, eccetto il mormorio qua e là insorgente dalla platea, composta peraltro da molti giovani, nella recita col cast alternativo di martedì 6 marzo.
Vick, come dichiara nel programma di sala, legge l’opera pucciniana come una lezione di morale: idea forte ma anche troppo vincolante e a rischio di monotonia, se non fosse per qualche efficace trovata (che spesso però nulla aggiunge all’idea di fondo) e per qualche scelta non del tutto spiegabile. La massa corale e dei figuranti, che rappresenta una turbolenta scolaresca nel primo atto, assiste alla rapida decadenza pubblica (finale secondo e atto terzo), quindi privata (quarto atto) della bella Manon. E se nel luna park spensierato e kitsch del primo quadro (con tanto di giostra di cigni ed enormi peluches), metafora della giovinezza, i curiosi adolescenti (che fingono distacco ma in realtà non vedono l’ora di scottarsi con l’amore) parteggiano per la fuitina di Manon e Des Grieux, nei quadri seguenti commentano o si limitano ad osservare con cinismo glaciale (emblematiche le stelle filanti lanciate verso la coppia infelice, magra consolazione di due solitudini accomunate dalla sventura più che dall’amore).
L’impianto scenico di impatto e di una certa imponenza di Andrew Hays verte tutto su un piano ligneo, posto ad altezza crescente nel corso dell’opera, sospeso su una fossa di terra, che dall’aspetto iniziale di fossato assume gradualmente quello di una profonda discarica. L’unico intervallo a metà dell’opera è durato cinquanta minuti, per permettere il cambio scena: nella seconda parte di questa Manon Lescaut infatti si sono alzati il piano ligneo e le passerelle che lo collegano alle facciate dei bianchi palazzi perimetrali, rendendo ancora più vistosa e dolorosa la “caduta” dei giovani nella fossa di terra bruna; quando parte la nave per le Americhe, in realtà, i due rimangono soli sulla piattaforma sospesa e isolata, mentre pochi minuti dopo, nell’ultimo quadro, li si vede per la prima volta effettivamente sulla terra, prigionieri della fossa/discarica e irrimediabilmente lontani dalla società e da quel piano dove è cominciata la loro storia. Azzeccati i costumi contemporanei di Kimm Kovac e i movimenti, anche complessi, di Ron Howell nella ripresa di Danilo Rubeca. Le luci di Giuseppe Di Iorio corrono parallele alla regia: di grande impatto visivo, mai brutte da vedere eppure non sempre stilisticamente leggibili univocamente in quest’idea drammaturgica.
Il secondo aspetto evidenziato dal regista, ma in realtà sacrificato dal primo fin qui esposto, è la visione di (cito dalle note di Vick) <>. Purtroppo il ridondante cinismo della lezione di morale impedisce di prendere sul serio ogni sentimento amoroso, neanche come sogno, costringendo la vicenda di Manon e Des Grieux alle derive “negative” e collaterali all’amore, dall’infatuazione alla lussuria alla disperazione. Vick insomma sostituisce l’amore con l’apparenza di esso, in tutte le sue manifestazioni fenomeniche, superficiali, pruriginose e a lungo andare un po’ sgradevoli. È ciò che disturba più a fondo lo spettatore, e senza che se ne accorga subito: non si riesce a provare simpatia per alcun personaggio. Il party a base di cocaina su cui è costruito l’atto secondo (dominato da un teatrino all’antica nella struttura ma modernissimo nel raffigurare la nudità femminile) dà una mazzata morale alla protagonista (e non solo) da cui è difficile riprendersi: lo stesso quadro è anche il più lento, drammaturgicamente e non, e pesa tutto sulla buona volontà degli interpreti in scena.
I quali erano Francesca Tiburzi e Sung Kyu Park. Il soprano bergamasco, nel ruolo del titolo, non può vantare la disinvoltura scenica di Amarilli Nizza (udita alla prima) ma più di lei cerca e trova la sensualità di Manon in uno strumento privilegiato e ricco nel timbro, quasi d’altri tempi, e nel volume, spesso felicemente domato dall’eleganza del fraseggio. Il tenore coreano interpreta un Des Grieux tenero e succube, cui le vesti dell’eroe stanno inevitabilmente larghe: nonostante qualche sforzo in acuto, anch’egli fraseggia con partecipazione ed esiti interessanti.
Elia Fabbian, con buona vocalità, disegnava un Lescaut destinato a fallire sin dall’esordio, parassita quasi buffo in balia degli eventi. Accanto a lui il Geronte fin troppo giovanile nella figura e nel timbro di Romano Dal Zovo, vocalmente e scenicamente un po’ squadrato. Simpatico e corretto l’Edmondo di Andrea Giovannini. Meritevoli di menzione anche il musico di Alessia Nadin (imperturbabile anche durante il piccolo incidente scenotecnico) e il lampionaio di Bruno Lazzaretti.
A manovrare la partitura forse più complessa di Puccini vi era Francesco Ivan Ciampa, uno dei direttori più interessanti tra i giovani che scendono nel golfo mistico, appassionato, accurato, personale. L’hanno seguito attentamente l’orchestra dell’Arena di Verona e, con qualche scollamento, il coro. Ne è uscita una concertazione dal suono opulento, sensuale nel legato, vario nelle dinamiche e in comunione d’intenti col cast nel cesellare ove possibile l’intimismo dei duetti. Buon successo di pubblico e applausi per tutto il cast, con accoglienza calorosa per la protagonista e per il maestro Ciampa. Foto Ennevi per Fondazione Arena