Genova, Arena del Mare: “Madama Butterfly”

Genova, Arena del Mare – Ti porto all’Opera 2017-18
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-cio-san) FEDERICA VITALI
Suzuki MARINA OGII
Kate Pinkerton MARTA CALCATERRA
F. B. Pinketon GIANNI MONGIARDINO
Sharpless STEFANO ANTONUCCI
Goro ALESSANDRO FANTONI
Lo zio Bonzo MANRICO SIGNORINI

Il Principe Yamadori/ Il Commissario Imperiale GIUSEPPE DE LUCA
Ufficiale del registro ROBERTO CONTI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore  Alvise Casellati
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia Vivien Hewitt
Scene e Costumi del Teatro Carlo Felice
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 26 luglio 2018

La “Butterfly” che è appena andata in scena a Genova, all’Arena del Mare, l’auditorium all’aperto allestito ogni anno presso il Porto Antico, è ben riuscita, grazie soprattutto a una sobrietà generale che ha impedito a una produzione cosiddetta low cost di degenerare in qualcosa di monotono o di ridicolmente sensazionalista – come purtroppo capita spesso. Sobrissima e attenta la direzione di Alvise Casellati, che è il primo ad assestarsi su un’aurea mediocritas che non lo allontani dalla lectio facilior della partitura: ci si concede qualche allargatura sui momenti più sentimentali, ma ruba qualcosa, d’altro canto, nella scena iniziale (Goro-Sharpless-Pinkerton) e in quello tra Cio-cio-san e il console americano. Buon equilibrio tra le parti orchestrali e attenzione quasi costante alla scena portano il direttore e i musicisti a guadagnarsi il giusto riconoscimento del pubblico. La regia ci dà la seconda lezione di sobrietà: Vivien Hewitt, irlandese trapiantata in Toscana, adatta per questa messa in scena francescana (giacché essenzialissima) la sua “Butterfly”, già vista a Torre del Lago qualche anno fa, e anch’ella appronta una regia quasi filologica, attenta al libretto e ben calata nel milieu verista: la aiuta in questo certamente anche il cast, tutto orientato a una viva presenza scenica, ed emotivamente molto coinvolto. Belli i giochi di luce di Angelo Pittaluga, tutti sui toni smorzati del pastello (ad eccezione del magniloquente rosso del finale), ma ben accostati anche ai costumi, classicissimi, curati da Elena Pirino. La scena forse avrebbe potuto essere più ricca, meno monocroma (tutta sui toni dell’antracite, del grafite, fino al nero intenso coprente), ma i costumi tradizionali multicolore e le luci, di certo, in questo modo risaltano più facilmente. Le interpretazioni dei cantanti hanno dato all’orecchio qualche dubbio, soprattutto nel primo atto: Goro suonava distante, così come, il sia pur valido, Zio Bonzo (Manrico Signorini), e Cio-cio-san non brillava, soprattutto nella zona acuta – né per emissione, né per precisione musicale, né per gradevolezza del timbro. Dopo l’intervallo, invece, abbiamo assistito a un cambio in alcuni casi anche vigoroso: Federica Vitali, che prima appariva spaesata, è divenuta molto più padrona del ruolo, sostenendo bene i centri e modulando con più varietà e attenzione quella acuta. È vero che il primo atto di “Madama Butterfly” è quello più lirico e meno verista, meno dolente, e forse la Vitali ha maggiore dimestichezza con personaggi più carichi (Amalia, Aida, Mimì, Liù): eppure anch’ella, pur nel crescendo emotivo, si è mantenuta sobria, evitando che l’interpretazione prendesse il sopravvento, e offrendoci una Butterfly vocalmente lucida, toccante ma misurata, dal fraseggio pulito. Alla fine non le si può non riconoscere una buona prova d’attrice e di cantante, con chiare vette in “Un bel dì” e nel duetto dei fiori (mentre si rivela un po’ più stanca su “Tu, tu piccolo iddio!”). In questo certo l’aiuta la mezzosoprano russa Marina Ogii, che già si era fatta notare ne “La rondine” genovese più recente: la sua Suzuki è rigorosa, precisa per intonazione e dall’emissione potente, e ben si amalgama al timbro metallico della Vitali del secondo atto. Il duetto è indiscutibilmente il punto più alto per entrambe, e richiama, forse volutamente, l’altro celebre duetto “floreale”, quello della “Lakmé”, per il languore con cui viene interpretato da entrambe le cantanti. Anche nelle scene a più voci Suzuki emerge con chiarezza e tatto, e certo non manca alla Ogii capacità scenica, che sostiene la bella prova vocale. Due interpreti d’esperienza che invece hanno dato buona mostra di sé per tutta la durata del dramma sono Stefano Antonucci e Gianni Mongiardino, rispettivamente Sharpless e Pinkerton: Antonucci ci è parso molto più a suo agio in questa parte, rispetto all’Enrico Ashton che ci aveva offerto a giugno, e ha saputo conferire a Sharpless la giusta umanità e amarezza; vocalmente ha sfoggiato il suo bel timbro scuro senza una sbavatura, fraseggiando con chiarezza. Anche Mongiardino supera bene la prova, anche se con maggior fatica: talvolta tentenna in acuto, ma mai tanto da perdere l’intonazione; da lui, che mostra un timbro tenorile tondo e sano, ci saremmo aspettati una maggiore variatio di intenzioni e sentimenti, forse: tende, infatti, a essere monocorde sotto l’aspetto interpretativo, anche se pienamente fruibile dal punto di vista della pura emissione e della piacevolezza. Non indimenticabili i personaggi secondari: solo Alessandro Fantoni, che interpreta quel Goro sottotono del primo atto, si riprende nel secondo e nel terzo, sostenendo meglio la voce, mentre lo Yamadori di Giuseppe de Luca non convince né scenicamente né vocalmente, rivelandosi poco presente e musicalmente non troppo preciso. Infine il Coro del Carlo Felice, diretto dal Maestro Franco Sebastiani, riesce a ben figurare in un’opera tutto sommato avara di parti corali: il famoso “A bocca chiusa” è un test che supera dignitosamente, meritandosi i calorosi scrosci del pubblico. Foto Marcello Orselli