Bologna, Auditorium Manzoni, Stagione sinfonica 2018
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Pianoforte Roberto Cominati
Luis De Pablo: “Ostinato”, per orchestra
Commissione della Regia Accademia Filarmonica di Bologna
Prima esecuzione assoluta
Maurice Ravel: Concerto in Re maggiore per pianoforte e orchestra “per la mano sinistra”
Sergej Prokof’ev: Suite sinfonica n. 2”op. 64 ter da “Romeo e Giulietta”
Bologna, 24 novembre 2018
La parabola decennale che ha portato sul podio felsineo il giovane Michele Mariotti (classe 1979, illustre figlio di uno dei creatori del ROF) sembra volgere al termine. Infatti il concerto dello scorso sabato e quello del prossimo giovedì saranno gli ultimi, insieme ad altri programmi replicati in tournée a Rimini e Pordenone, e preludono alla conclusione del rapporto tra il maestro pesarese ed il Teatro Comunale, definitiva dopo il prossimo Don Giovanni (vi saremo in dicembre). È innegabile che sia i complessi bolognesi sia Mariotti siano cresciuti insieme negli ultimi dieci anni: il direttore è ora richiesto, principalmente nel repertorio operistico o comunque sinfonico vocale, in tutti i teatri più importanti del mondo mentre il Teatro Comunale si è contraddistinto in Italia e in Europa per uno straordinario eclettismo ed una programmazione davvero varia e attenta alla contemporaneità. Se teniamo conto di questi aspetti, purtroppo va detto, tanto Bologna quanto Torino dal 2019 probabilmente non saranno più quei punti di riferimento per il pubblico italiano e non di melomani itineranti né per il pubblico che è già sazio di Traviate, Tosche, Rigoletti, Barbieri e Turandot (capolavori intramontabili ma… ci siamo capiti).
A causa di una viabilità congestionatissima dal traffico, si è potuto assistere alla prima esecuzione assoluta di Ostinato solo dal foyer, amplificata senza velleità artistiche e tecniche. Il brano, poco meno di 15 minuti commissionati dalla Regia Accademia Filarmonica bolognese al compositore spagnolo Luis De Pablo, è parso l’ennesima sperimentazione di timbri giustapposti in dissonanze (più ancora che di ritmi, come lascerebbe intendere il nome). Nonostante l’agiografico programma di sala, è riuscito nel prevedibile intento di ricordare al pubblico medio perché l’affluenza e l’interesse per la musica contemporanea siano in drastica diminuzione. Dopo una brevissima pausa necessaria per sistemare il gran coda (che copriva totalmente la vista del Direttore), ecco arrivare Roberto Cominati per il Concerto per la mano sinistra: poco più di 15 minuti anche questo brano, ma intensissimi e notevolmente impegnativi, dato la notoria disposizione dell’autore che prevedeva si suonasse come se si usassero entrambe le mani. Il dedicatario Paul Wittgenstein non poté fare altrimenti, ma anche nella performance di Cominati si è avvertita la potenza concertatrice della sinistra, complici anche le scelte dinamiche ed agogiche di Mariotti. La dote migliore della conduzione, emersa nell’opera ma in maniera evidente anche in questo concerto, è l’incredibile cantabilità di ogni frase, portata all’estremo senza però mai perdere in pulizia di suono (senza “sbracare” insomma). Così è stato per l’incipit del Concerto, con il ribollire dell’orchestra da cui si leva il canto incerto e primordiale del controfagotto, frammento poi ripreso ed ampliato da Ravel, sempre sottolineato da Mariotti e da una compagine in stato di grazia in ogni sua parte. Cominati esegue elegante senza mai gigioneggiare, tiene il tempo molto più mosso dell’allegro marziale e non importa se solo una nota è sporca: è l’eccezione in una performance da antologia. Pubblico in visibilio (per una pagina diffusa ma non certo ammiccante al pubblico) e ripetute chiamate al proscenio, tanto da cogliere di sorpresa le luci in sala già accese: Cominati regala due fiale di charme con un Greshwin sobrio e pulitissimo ma trascinante per ogni cromatismo swing (The man I love) e quindi un tango di Piazzolla, anche questo eseguito con tempo insolitamente spedito, senza alcuna svenevolezza o concessione all’orecchio moderno (Milonga del Angel).
Mariotti è padrone assoluto della seconda parte del concerto, un’antologia dal celebre balletto di Prokof’ev Romeo e Giulietta, che in realtà in sette brani accorpano una dozzina di numeri mutuati dalle suite 64 bis e ter estrapolate dall’autore stesso. Il direttore pesarese, pur tenendo conto della cantabilità ampia già elogiata nel repertorio lirico e in Ravel, offre un’interpretazione maiuscola e abbastanza sorprendente. Mai lo si era visto scavare così tanto in profondità per riemergere con una tensione inaudita in ogni ritmo, trattato con la cura del contrappunto, e di ogni melodia, dilatata allo spasimo. L’agogica è flessibilissima, studiata per la sala da concerto e non per il balletto, i tempi generalmente lenti, adatti alla distillazione della melodia, senza mai cadute di gusto o di tensione, e particolarmente felici nelle oasi liriche (estatica ma non estenuata la scena al balcone). Laddove c’è da correre un po’ di più, maestro ed orchestra avanzano minacciosi e imperterriti: la danza dei cavalieri è mossa e severa senza esagerazioni, sottolineata ancora di più dal trio lentissimo ed onirico, e la morte di Tebaldo è un prodigio di composta “russicità” in cui si chiedono (e ottengono) virtuosismi ai violini e grande coesione nel tutti (climax finale da fiato sospeso). Insomma, in questa seconda parte del concerto aleggiava lo spirito di un grande assente che, mai come in questo caso, è sembrato ispirare col suo metodo il Direttore e, sempre questa volta più che mai, è sembrato ispirarsi a sua volta alla musica di Prokof’ev, a questa in particolare, per il suo celebre musical: stiamo parlando di Leonard Bernstein, che per West Side Story ha sicuramente attinto a piene mani ai timbri e ai ritmi di Romeo e Giulietta. Come interprete, le letture dell’ultimo Bernstein si distinguevano per i tempi ampi, molto dilatati in modo da far emergere fili e maglie degli orditi orchestrali anche più densi e portare le chiavi di volta melodiche alla massima tensione, prima di scioglierla in un modo che diventava improvvisamente logico, l’unico e più efficace possibile. Questa caratteristica ha permeato l’interpretazione di Michele Mariotti, con il pregio extra di un dionisiaco controllatissimo, che lo ferma subito prima di sconfinare nel cattivo gusto (ma non lo trattiene dal cantare, maluccio, alcune frasi udibili anche nel tutti a causa dell’ottima acustica del Manzoni). Mariotti si conferma direttore di primo piano internazionale, con successo enorme di pubblico e un’orchestra che, all’ennesimo invito ad alzarsi, lo lascia solo (e un po’ commosso) a prendersi i meritatissimi applausi.
