Bologna: Juraj Valčuha inaugura la stagione sinfonica del Comunale

Bologna, Auditorium Manzoni, Stagione sinfonica 2019
Orchestra del teatro Comunale di Bologna
Direttore Juraj Valčuha
Gustav Mahler: Sinfonia 6 in la minore “Tragica”
Bologna, 2 febbraio 2019
Dopo le recite de Il trovatore secondo Bob Wilson (coprodotto con Parma che l’ha messo in scena al Farnese lo scorso ottobre), Bologna inaugura anche la sua stagione sinfonica 2019 con una delle bacchette più interessanti oggi attive al mondo ed una sinfonia titanica. Da sola, la celebre Sesta mahleriana monopolizza il programma, con i suoi 85′ minuti che impegnano costantemente (nel caso dello scorso sabato) ben 107 professori d’orchestra. “Tragica” rimane appellativo apocrifo dell’opera, nata in un momento di relativa serenità dell’autore ma dominata da un finale di desolante e clamoroso pessimismo.
Mahler, nonostante la fortuna esecutiva sempre crescente, rimane una bestia rara nei programmi italiani, riservata a grandi compagini di tradizione eminentemente ma non esclusivamente sinfonica (Santa Cecilia, Scala, Rai). Un’occasione più unica che rara è l’integrale mahleriana attualmente in corso all’Opera di Firenze sotto la direzione di Fabio Luisi. Mentre a Bologna, dopo alcuni anni di intenso ed ottimo lavoro proprio con l’orchestra torinese della Rai, è arrivato Juraj Valčuha, quarantatreenne russo attualmente direttore stabile al San Carlo di Napoli, dove approfondisce i finora rari ma memorabili incontri con l’Opera degli ultimi centovent’anni. A Bologna l’ottima direzione di Peter Grimes di due anni fa gli valse questo invito e lo si ritrova al Manzoni al meglio delle sue qualità: estrema cura del dettaglio anche nell’ordito orchestrale più fitto, tempi comodi ma sempre narrativamente tesisssimi, dinamiche ampie senza effettismo e senza perdere trasparenze anche nei tutti più fragorosi. Il gesto poi, cosa rara, almeno dal pubblico appare di compostezza, eleganza e stregonesca leggerezza: pregi che riportano alla mente il Claudio Abbado maturo (ma non estremo). La lucidità di una direzione analitica è caratteristica non introvabile in molti direttori interessanti della sua generazione: Valčuha, che parrebbe freddino nella sua slava impassibilità e assoluto controllo della partitura più densa, vi aggiunge, come pochissimi altri, la capacità di una sintesi narrativa fuori dal comune, che rende ancora più stimolante ogni suo accostamento al Teatro musicale (pochi titoli miratissimi, nonostante un repertorio sinfonico smisurato… altra caratteristica “abbadiana”). Valga come esempio lo Scherzo (in terza posizione, come da recente e ristabilita tradizione): la forza quasi macabra di questa marcia sghemba perché ternaria è data dalla trasparenza di suono, ricchissimo timbricamente ma mai fine a se stesso, quindi scabro per la precisione del ritmo (anche questo mai troppo violento) efficacissimo proprio per la cura dell’orchestratore originario che riemerge in questa interpretazione. Dopo l’ultimo trio, il ritorno del tema e la coda appaiono trasfigurate da un velo di dubbio: non una malattia estenuante ma un’angoscia senza nome, un progressivo, impercettibile, rallentando porta alla dissolvenza finale in pianissimo e rende ancora più scioccante il coup de theatre che apre l’ultimo movimento.
L’esecuzione di altissimo livello è stata possibile grazie ad unOrchestra del Teatro Comunale di Bologna in forma smagliante non solo per gli aggiunti ma per la coesione data da un’interpretazione degna di tale nome. Le minime sbavature, qua e là in tessiture estreme dei fiati, o nei marosi degli archi (che devono essere instancabili per affrontare certi ostinati anche dopo un’ora e un quarto di tour de force) sono le uniche imperfezioni che ci ricordano si tratti di un’orchestra da fondazione lirica “prestata” all’impegno sinfonico. Li si è sentiti più volte infatti gli stessi musicisti scricchiolare in pagine liriche ben meno massacranti di questa, principalmente se guidate da una bacchetta non adeguata. Qui, grazie alla collaborazione con un direttore che manifestamente apprezzano, hanno dato il meglio, per compattezza, precisione, attenzione, “amore” del fare musica assieme, dal primo attacco nettissimo all’ultimo accordo che si estingue nel vuoto. Il pubblico, che gremiva l’Auditorium Manzoni, è stato generoso di applausi e chiamate per il Direttore e per l’Orchestra, pur non essendo stato dei più disciplinati e attenti lungo l’ora e mezza di performance. Non posso non citare il mio sconosciuto vicino di posto, signore di mezza età capitato non si sa perché in una sala da concerto, che ha passato tutta -e dico davvero tutta- la serata grattandosi rumorosamente la barba e accasciandosi ora su un lato ora sull’altro fino a trovare la posizione ideale per il pisolino (felicemente avvenuto durante l’Andante, ahimè troppo breve) e regalando l’impressione del primo ascolto mahleriano in assoluto quando, per ben quattro volte, all’alzarsi del visibilissimo martello di legno nell’ultimo movimento (di ottima resa fonica, secca e fragorosa ma mai volgare), è corrisposto un pari numero di spaventatissimi salti sulla poltrona. Non sappiamo se questo spettatore tornerà mai ad ascoltare Mahler né se sarà sconvolto anche dai campanacci da pascolo (non nelle mie vicinanze, almeno spero) ma di certo consiglierei a tutti di tornare a vedere questo Mahler in particolare, se vi fosse una replica. Anche gli orchestrali, stremati ma grati, sembrerebbero gradire. Intanto, tra pochi giorni, udremo lo stesso direttore lavorare con i complessi bolognesi per un altro capolavoro del Novecento esattamente contemporaneo alla Sesta mahleriana: Salome, che si preannuncia di assoluto interesse. Foto Rocco Casaluci

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