Teatro Regio di Parma, Stagione lirica 2019
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri, Libretto di Luigi Illica.
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier MARTIN MUEHLE
Carlo Gérard CLAUDIO SGURA
Maddalena di Coigny TERESA ROMANO
La mulatta Bersi NOZOMI KATO
La Contessa di Coigny SHAY BLOCH
Madelon ANTONELLA COLAIANNI
Roucher STEFANO MARCHISIO
Pietro Fléville / Fouquier Tinville ALEX MARTINI
Il sanculotto Mathieu FELIPE OLIVEIRA
Un “Incredibile” ALFONSO ZAMBUTO
L’Abate ROBERTO CARLI
Schmidt STEFANO CESCATTI
Il Maestro di Casa / Dumas LUCA MARCHESELLI
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Associazione Coro Lirico Terre Verdiane – Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Giovanni Di Stefano
Maestro del Coro Stefano Colò
Regia Nicola Berloffa
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Regio di Parma, Allestimento in coproduzione con Opéra de Toulon.
Nuovo allestimento
Parma, 7 aprile 2019
Al Teatro Regio di Parma l’opera più celebre di Umberto Giordano non si vedeva da vent’anni esatti. Per la stagione lirica 2019 torna con un nuovo allestimento coprodotto ma di fatto importato anche nelle masse artistiche, con l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini e il modenese Coro Lirico Terre Verdiane diretto da Stefano Colò. Lo spettacolo chiude a Parma la densa tournée che l’ha portato dal debutto a Modena lo scorso 15 febbraio e negli altri teatri emiliani prima di emigrare a Tolone. La coproduzione di questa rete di teatri oggigiorno va lodata, soprattutto se confrontata con la programmazione di altre fondazioni ben più foraggiate che rappresentano la stessa decina di titoli (allarmante sclerotizzazione dell’immenso repertorio operistico) a poche settimane e pochi chilometri di distanza. Con la Casolla del 1999 ancora nelle orecchie e con complessi “cugini” ma non autoctoni, il famigerato (e folto) pubblico del Regio si è accostato con cautela ed intima diffidenza ad uno spettacolo nuovo, che -ormai rodato da una decina di repliche- non è perfetto ma si dimostra interessante e funzionale, suscitando calorosi applausi ed un consenso praticamente unanime alla fine della recita. Per la regia di Nicola Berloffa, virtù e perplessità riscontrate al debutto sono rimaste invariate: mentre ai protagonisti è lasciata sufficiente libertà di portare le proprie ugole a spasso in proscenio (anche per mancanza di altri spazi), è nei personaggi “minori” e nei mimi che si concentra la ricerca del dettaglio particolare. Così le Meravigliose nel secondo quadro invadono la scena come una nube di profumo denso e a tratti volgare, com’è giusto che sia, e i servi (alla fine del primo) diventano minacciosi rivoluzionari proprio sotto gli occhi della Contessa. La quale, ben cantata da Shay Bloch, muore infilzata dalle baionette sull’ultima nota del primo quadro: una scelta che, nonostante sia meglio oliata che alla prima, continua a non funzionare del tutto e a lasciare il pubblico più perplesso che sconvolto. La scena, pur bella, di Justin Arienti è l’ostacolo maggiore al libero movimento delle masse e dei solisti (comunque ben gestito): la scena di interno-esterno dalla marcata prospettiva angolare è troppo ravvicinata al proscenio -forse per esigenze acustiche- e la mancanza di profondità sacrifica non poco gli spazi, creando a tratti delle sovrapposizioni e sovrappopolamenti che vanno dal goffo al comico involontario. Un esempio del primo tipo è la scelta di relegare al “palco nel palco” la sfilata dei rivoluzionari nel secondo quadro che fa sfondo alle direttive di Gerard (forse il punto più alto e nobile della retorica musicale di Giordano, nonché alto momento di teatro per il connubio pubblico-privato), togliendole respiro e movimento; un esempio dell’altro tipo è ogni movimento notturnodell’Invisibile Alfonso Zambuto, in realtà visibilissimo, a pochi centimetri dalla coppia che amoreggia.
La caratteristica infine più determinante di questa scatola scenica dominata dalla ghigliottina è che va vista dal lato sinistro della platea: strano a dirsi, ma solo da quell’angolazione permette di godere tutti i movimenti in scena e soprattutto le belle luci di Valerio Tiberi, in particolar modo i tagli dell’ultimo quadro. Il cast, dopo diversi cambi in itinere, torna alla formazione originaria con un’unica grande eccezione: la Maddalena di Teresa Romano, lirica e delicata, opposta a quella drammatica e intensa della Hernández. L’interpretazione è sempre misurata, eccellente nel tratteggiare un personaggio sfumato, apparentemente risolto nelle mezzetinte ma in cui ribolle un temperamento indomito suggerito da un centri e gravi di sonorità e bellezza timbrica immacolata (gli acuti, pochi, a dire il vero sono meno belli: azzeccati ma anche un po’ lanciati in ottimistica speranza). Accanto a lei, applauditissima, il protagonista è ancora Martin Muehle, sempre poderoso per volume e dizione, anche se il suo Chénier (soprattutto di fianco a tale Maddalena) sacrificando molte delle sfumature d’espressione in favore di un declamato marmoreo.
Il pubblico del Regio, affamato di vocione, lo porta al trionfo, così come il Gèrard di Claudio Sgura, che troviamo meno impacciato con la sua lunga figura ma che non convince ancora del tutto, nonostante la correttezza di fondo: dei bei costumi storici di Edoardo Russo, l’unico che non dona a chi l’indossa è forse il suo, mentre l’interpretazione rimane un po’ generica e, pur nel dubbio tra due vie, il personaggio non risulta nobile né furfante. Anche se è forse percettibile una certa stanchezza dopo tante repliche ravvicinate, complimenti ancora meritano le performance vocali e attoriali di Nozomi Kato, Stefano Marchisio, Antonella Colaianni e Fellipe Oliveira. Corretti anche Alex Martini, Roberto Carli, Stefano Cescatti e Luca Marcheselli. Il Coro modenese, cresciuto nel corso delle recite, strappa applausi a scena aperta mentre più pasticciata è la prova dell’orchestra, vuoi per il ritardo dei treni su cui qualche strumentista viaggiava, vuoi per la concertazione di Giovanni Di Stefano, subentrato all’iniziale Aldo Sisillo, che tenta colori diversi compromettendo però la tenuta complessiva dell’insieme: nulla di tragico accade, a parte qualche sbavatura questo Andrea Cheniér sale al patibolo con grande consenso di pubblico. Nota di colore, collaterale ma non insignificante: forse l’applauso più lungo e sentito della pomeridiana è quello fuori programma a Renata Scotto, salutata durante l’intervallo da una vera e propria standing ovation.
