Teatro Comunale di Bologna, Stagione d’Opera 2019
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti, Libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry LUISA TAMBARO
Flora Bervoix ALOISA AISEMBERG
Annina MARIA CABALLERO
Alfredo Germont FRANCESCO CASTORO
Giorgio Germont SIMONE DEL SAVIO
Gastone, visconte di Letorières ROSOLINO CLAUDIO CARDILE
Barone Douphol PAOLO MARCHINI
Marchese d’Obigny RICCARDO FIORATTI
Dottor Grenvil FRANCESCO LEONE
Giuseppe ENRICO PICINNI LEOPARDI
Un commissionario SANDRO PUCCI
Un domestico di Flora RAFFAELE COSTANTINI
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Renato Palumbo
Regia, scene e luci Andrea Bernard
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Assistente alle luci Daniele Naldi
Movimenti coreografici e aiuto regia Marta Negrini
in collaborazione con la Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con il Teatro Regio di Parma.
Bologna, 28 aprile 2019
Severo ma giusto, il foltissimo pubblico bolognese accoglie freddamente la nuova Traviata andata in scena al Teatro Comunale lo scorso 28 aprile. Non è imputabile allo spettacolo lo scontento generale per non aver potuto assistere alla prova di Mariangela Sicilia, talentuoso soprano emergente, purtroppo indisposta e costretta a rinunciare alla recita a due ore dal principio. Un plauso solidale va quindi al debutto anticipato di Luisa Tambaro, prevista nel cast alternativo. Tolto l’imprevisto e le aspettative ad esso correlate, va esaminata la serata per ciò che è stata: una prova musicale di discreta routine al servizio di una regia forse non perfetta ma intelligente -sicuramente poco amata dall’uditorio. Responsabile del primo esito è il maestro Renato Palumbo, esperto conoscitore del repertorio operistico esplorato in lungo e in largo in tutto il mondo ma qui al timone di scelte discutibili, che vorrebbero essere “verdiane veraci” con tempi stringati e accompagnamenti ben udibili (al confine col temuto zum-pa-ppà) ma che di fatto non aiutano l’orchestra né i cantanti: al di là delle perdonabili (ma non poche) sbavature con cui attacca l’altrimenti più corretta Orchestra del Teatro Comunale, i tempi “garibaldini” incidono sul fiato di cantanti già tesi per motivi extramusicali e spesso costringono il podio a correggere il tiro a metà brano (sia il brindisi, o un duetto). Una certa schizofrenia agogica imperversa anche quando le voci riescono a stare al passo, come nell’atto secondo, cercando di rendere interessante una narrazione più effettistica che lineare. Persino quando la bacchetta cerca di sottolineare particolari preziosi come tensioni armoniche sotto la linea principale o sfumature dinamiche nell’accompagnamento (onde evitare accuse di zum-pa-ppà), il golfo mistico suona con generale pesantezza e sembra non “cantare” mai, con o senza interpreti in palcoscenico. Nonostante il rischio di saltare per aria in “Si ridesti in ciel l’aurora”, il Coro diretto da Alberto Malazzi ne esce meno malconcio e, soprattutto nel concertato dell’atto secondo, offre un suono compatto, bello ed omogeneo.
Gli interpreti sono decorosi e non incorrono in scivoloni deprecabili, ed è già un mezzo successo se si considera il clima instauratosi con un pubblico attentissimo (cosa rara) e freddino (ma competente, cosa ancora più rara): gli applausi alla fine dei numeri principali o non ci sono del tutto o sono dei brevi ed esili applausi. Lo spirito del direttore dovrebbe essere tale da “sentire” la temperatura della sala e non lasciare i cantanti soli di fronte a interminabili secondi di angoscioso silenzio: ciò non succede mai e quindi serve a poco attaccare una cabaletta vorticosa dopo un attimo (breve ma percepibile) di vuoto siderale. Tralasciando la pronuncia arruffata, è buona la prova della giovane Maria Caballero (Annina) ed efficace è la Flora di Aloisa Aisemberg, ma nonostante la correttezza di fondo di Rosolino Claudio Cardile (Gastone), Paolo Marchini (Douphol), Riccardo Fioratti (d’Obigny)e il Dr.Grenvil di Francesco Leone (collaboratori frequenti del Comunale), l’esito finale non decolla. Non può farlo Francesco Castoro, timbro lirico, fresco e giovanile -attorialmente perfetto per questo Alfredo patatone- ma a tratti provato nell’emissione, né, spiace dirlo, la protagonista Tambaro, cui i panni di Violetta stanno un po’ larghi: il timbro è gradevolmente scuro (alle orecchie a volte richiama un colore à la Netrebko), le note -anche se non troppo sonore- ci sono tutte, compreso un inatteso mi bemolle sovracuto al termine del primo atto, le intenzioni espressive sono molto buone, ma non ne esce ancora un personaggio completo -e nonostante la cura nella recitazione, forse la colpa è proprio della visione registica. L’accoglienza riservata a quasi tutti è delle più fredde da che si ricordi negli ultimi vent’anni e dimostra che interpreti corretti e decorosi, per La Traviata, forse non bastano: alla ribalta vengono mimi, danzatori, figuranti, comprimari, destinatari di un educato tributo che si spegne visibilmente tra un’uscita e l’altra.
Unico vero trionfatore della serata è stato Simone Del Savio, Germont tecnicamente solido, ottimamente cantato, scenicamente in parte, fraseggiatore e interprete maturo e sensibile: una prova maiuscola da vedere e sentire, sottolineata alla fine da un applausometro spietatissimo. Gli autori della parte visiva guidati da Andrea Bernard, comunque applauditi, sono stati i destinatari di alcune sonore contestazioni. Perché? Lo spettacolo di Bernard non è del tutto nuovo: vincitore del biennale contest di OperaEuropa nel 2016, è stato visto già a Parma due anni fa e videotrasmesso. Non stupisce che l’idea di fondo sia piaciuta alla giuria internazionale: una sfida più intellettuale che sentimentale, un’interpretazione ben realizzata volta ad evidenziare cinismo e immaturità dei protagonisti in un mondo dominato dal denaro (fin qui, nulla da eccepire). Alfredo e Violetta sono due giovani di oggi, figli del bel mondo, bamboccione lui e trafficona lei, entrambi sentimentalmente incoscienti, che scambiano il capriccio per amore. Il tutto sullo sfondo di una società altoborghese perfettamente riconoscibile, nelle feste alla casa d’aste Valery’s e nella dimora firmata da qualche archistar. Le scene e le luci, realizzate con Alberto Beltrame e Daniele Naldi, sono eleganti, efficaci, giustamente freddine (richiamanti uno stile europeo alla Michieletto e alla Guth e rispettivi team creativi) e i bei costumi contemporanei di Elena Beccaro sono drammaturgicamente funzionali (bel colpo d’occhio lo speed-date “a casa di Flora” e la coreografia delle masse di Marta Negrini, anche -ma non solo- attorno alla danza-lotta dei mattadori). Ma se intellettualmente tutto si incastra e quasi tutto fila liscio (portare a spasso quella tela dipinta, per quanto importante e metaforico, è impiccio che causa non poca goffaggine, mentre far uscire i personaggi salendo una scala a chiocciola è, se non crudele, incautamente ottimistico), sentimentalmente qualcosa latita: Verdi voleva sì mettere l’ipocrita pubblico contemporaneo di fronte ad una vicenda moralmente scomoda ma, complice anche la propria esperienza, non voleva certo negare l’amore, oltre all’innamoramento, che porta al sacrificio della vita.
Tale concetto risulta ancora nobile sì ma melodrammaticamente esagerato oggi: Bernard lo sminuisce dichiaratamente. Ma La traviata è pur sempre un melodramma (IL melodramma) ed il gioco del cinismo, anche se coerentemente condotto, rischia di causare una distanza eccessiva tra interprete e personaggio e soprattutto tra opera e pubblico. La traviata non è Così fan tutte (e pure in questo titolo ciò che Mozart ha scritto nel secondo atto dimostra che il cinismo programmatico non attecchisce). Un cedimento in tanto distacco narrativo avviene durante l’aria del baritono: il bamboccione Alfredo (dopo aver guardato l’uomo tigre in tv) esce di scena e, in sua vece, Germont padre accarezza l’Alfredo bambino alla calda luce di un sole basso; espediente -finalmente- sentimentale, efficace e toccante, che di fatto rende il bacchettone Giorgio più simpatico di chiunque altro. Piaccia o meno questa Traviata, viene il sospetto che la salva di “buu” abbia colpito le persone sbagliate per i motivi sbagliati, ma ha dimostrato che c’è ancora un pubblico attento che crede ancora nell’Opera come qualcosa di più di una forma d’arte e reagisce di conseguenza. Una speranza per il futuro ed un avvertimento per qualunque teatro che osi proporre all’infinito lo stesso esiguo repertorio. Foto ©Andrea Ranzi-Studio Casaluci
