Milano, Teatro alla Scala: “I masnadieri”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/19
“I MASNADIERI”
Opera tragica in quattro atti su libretto di Andrea Maffei da “Die Räuber” di Friedrich Schiller
Musica di Giuseppe Verdi
Amalia LISETTE OROPESA
Massimiliano MICHELE PERTUSI
Carlo FABIO SARTORI
Francesco MASSIMO CAVALLETTI
Arminio FRANCESCO PITTARI
Moser ALESSANDRO SPINA
Rolla MATTEO DESOLE
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coroBruno Casoni
Regia David McVicar
Scene Charles Edwards
Costumi Brigitte Reifenstuel
Luci Adam Silverman
Movimenti coreografici Jo Meredith
Milano, 21 giugno 2019
Il biennio 1781-82 ha rappresentato un momento di svolta fondamentale nella storia del teatro europeo in prosa e in musica e quella stagione sembra trovare un ideale riflesso nell’attuale programmazione scaligera che in qualche modo omaggia le fondamentali prime di quei mesi. Il 29 gennaio 1781 va in scena a Monaco “Idomeneo re di Creta” che non solo rappresenta il pieno raggiungimento della maturità artistica mozartiana ma che soprattutto segna l’emergere, pur all’interno di un contenitore formale prettamente neoclassico, dei primi sentori della nuova sensibilità preromantica; meno di un anno dopo – il 13 gennaio 1782 – a Mannheim, Schiller porta in scena “Die Räuber” che dello Sturm und Drang teatrale diventerà una sorta di manifesto.In una sorta di omaggio a distanza la programmazione scaligera presenta, pochi mesi dopo “Idomeneo”, un nuovo allestimento de I masnadieri”, l’opera che Verdi e Maffei trassero dalla tragedia di Schiller nel 1847. In un titolo che musicalmente affonda ancora le sue radici nella tradizione del primo Ottocento Michele Mariotti si trova nel suo terreno d’elezione. Mariotti non cerca di raffinare una musica che spesso è tagliata con l’accetta e che è attraversata da un impeto scomposto ma pulsante in cui già palpitano le rivoluzioni dell’anno successivo; la sua direzione rende perfettamente questa teatralità un po’ anarchica ma sempre vitalistica, questa ritmica furiosa e brutale che domina le pagine corali e l’impellenza delle cabalette e delle strette riuscendo a cogliere anche una certa ironia che in qualche modo stempera pagine tanto cupe e ferrigne. Quando la partitura lo consente – specie nelle arie di Amalia –, Mariotti sa far cantare l’orchestra con un respiro ancora quasi donizettiano che è cifra propria di quest’opera in equilibrio fra passato e futuro.
La sensibilità di Mariotti avrebbe richiesto un protagonista più in linea di Fabio Sartori. L’eroismo di Carlo Moor è ancora per molti aspetti quello di un Edgardo, di un Leicester, di un Gennaro e i momenti cantabili – primo fra tutti “O mio castel paterno” – sono ancora pienamente inseriti in un’estetica tardo-belcantista Ben poco di quello si ritrova nella voce di Sartori che sicuramente è ricca di armonici, sicura e squillante – qualche difficoltà nel recitativo d’entrata è stata rapidamente superata, con acuti robusti e ricchi di suono – ma il timbro nel corso degli anni si è scurito allontanandosi ulteriormente dall’optimum mentre il canto latita sul versante della morbidezza, dell’eleganza, del gioco dei chiaroscuri fondamentali per rendere compiutamente questa figura di eroe maledetto.Brilla tanto sul piano vocale che interpretativo l’Amalia di Lisette Oropesa, semplicemente perfetta nell’unico ruolo da autentico soprano leggero scritto da Verdi. Belcantista di razza, la Oropesa unisce un timbro morbido e setoso, senza le asprezze che a volte ritroviamo in questo tipo di voci con una tecnica fenomenale. Un canto leggero ed etereo ma sempre sostenuto da un perfetto controllo del fiato che le permette di volteggiare sicura anche nei più impervi passaggi di bravura – le colorature sono ineccepibili da ogni punto di vista – senza mai perdere l’assoluto controllo della linea. La Oropesa non è però solo splendida cantante ma anche interprete attenta e sensibile: il virtuosismo non è mai fine a se stesso ma sempre calato in un’attenta dimensione espressiva che dà vita alla radiosa esplosione di “Carlo vive?”, alla sincera commozione delle scene con Massimiliano o all’impeto di rivolta in “Ti scosta o mal nato”.Federico è forse la parte più moderna dell’opera; per quanto il carattere risulti monocorde fino all’esasperazione, il tipo di vocalità è quella che più si allontana dei precedenti e più si avvicina alla nuova concezione del baritono verdiano. Massimo Cavalletti non ha le caratteristiche tipiche della nuova tipologia e in alcuni momenti sembra messo alle corde dalla parte. La voce è chiara, squillante, ma manca di autentico spessore drammatico. La linea di canto è molto curata e Cavalletti cerca di dare un’allure di nobiltà al personaggio togliendola da una dimensione di sola torva malvagità; cerca, inoltre, – anche se il ruolo concede poco – di dare un tocco più insinuante, di rendere meno scontata la crudeltà del minore dei Moor e questo si apprezza anche se resta il sentore di qualche mancanza di forza in alcuni momenti. Michele Pertusi non è l’autentico basso profondo che la parte di Massimiliano richiederebbe ma la nobiltà del canto e dell’accento, la bellezza del timbro, la pienezza della cavata gli permettono di tratteggiare un personaggio emozionante e di intensa umanità. Onesta professionalità ma nulla di particolarmente rimarchevole per le parti di fianco: Francesco Pittari (Arminio), Alessandro Spina (Moser), Matteo Desole (Rolla) e come sempre sontuosa la prova del coro scaligero.
L’estrema essenzialità del libretto pone qualche problema a David McVicar che pur realizzando uno spettacolo non privo di interesse resta lontano dalle sue migliori realizzazioni. Il regista scozzese cerca di recuperare quella componente di denuncia sociale che è alla base del dramma di Schiller e di cui praticamente nulla resta nella riduzione operistica. La vicenda si svolge in un palazzo caserma, metafora di una società militarizzata come quella prussiana del XVIII secolo ma in cui certi piccoli anacronismi – come le docce lungo le pareti – indicavano una valenza più astratta e universale ricordando un altro e più cupo militarismo tedesco, quello guglielmino che portò al I conflitto mondiale. La scena è una vasta camerata dominata da un ballatoio ligneo e illuminata da due grandi finestre fra le quali si trova un ritratto alla van Eyck di Amalia. Nel corso dell’opera l’edificio collasserà progressivamente per i danni della guerra. All’inizio Carlo e compagni sono militari – i costumi sono rigorosamente settecenteschi – e la loro rivolta nasce contro le costrizioni e le ipocrisie dell’ambiente militare. Anche i costumi segnano questa rottura passando dalle ordinate divise degli inizi ai logori pastrani dei banditi cui le maschere mostruose – ricordanti il Gwynplaine de “L’Homme qui rit” di Hugo – danno tratti quasi demoniaci che il cinetismo delle coreografie ulteriormente ha rafforzato. La vicenda è svolta con mano attenta e sicura e si cerca di dare un giusto rilievo alle psicologie per quanto il libretto lo consenta. Da segnalare infine l’aggiunta di un figurante che segue i protagonisti nel corso della vicenda scrivendone la narrazione; mi pare verosimile vedervi il giovane Schiller, ancora studente nella scuola caserma di Solitude a rimarcare la radice in parte autobiografica – per le tematiche se non per le vicende – della tragedia.