«D’ogni bell’arte non sei tu madre, o Italia?» (Silvio Pellico)
I Greci dissero che la danza fu inventata dalla dea Rea, e apprezzarono sempre quest’arte in modo sublime, allo stesso modo in cui coltivarono la musica, la pittura, la poesia e la filosofia. Ma la maggior parte dello sviluppo di quest’arte, così virtuosa, è merito senza dubbio dei grandi maestri italiani, il cui contributo, la cui osservazione e la cui passione per questa disciplina sono di grande valore storico, oltre a costituire un pregiato esempio di cultura artistica e sensibilità. Già nel Quattrocento e Cinquecento operarono in Italia veri esperti e professionisti della danza; il loro lavoro di maestri e trattatisti creò basi molto solide per quella che due secoli dopo sarebbe stata chiamata “danza classica” o “accademica”: Fabritio Caroso (che nel 1581 pubblicò il trattato Il ballarino), Domenico Piacenza (1554), Pietro Paolo (1589), Cesare Negri (1602), hanno tutti contribuito in maniera determinante allo sviluppo della danza, e sarebbe molto interessante proporre una ricerca su loro lascito culturale; in questo approfondimento, tuttavia, ci concentreremo sui maestri dei secoli XVII-XIX. «Gl’Italiani, senz’alcuna contraddizione, furono i primi a dar le regole della Danza, sulle quali scrissero alcuni libri […]. I spagnoli poi furono i primi che impararono la danza italiana, a cui aggiunsero alcune capriole ed il suono delle castagnette […]. Ma appresso essendo arrivata la Danza Franzese, incontinente l’Italiana oscurata ed avvilita dalla vaghezza di quella, si cominciò a disusare, ed in pochissimo tempo accadde che la Danza Franzese s’imparava per necessità, laddove la Spagnola s’imparava solamente per rarità»: così sintetizzava Jean Baptist Dufort, autore del Trattato del ballo nobile (1728), nell’Avviso al lettore Monsieur (citato da Tani, p. 471: v. Bibliografia). I primi trattati si preoccuparono di fornire i nomi ai movimenti di ballo, alle regole e alle tecniche secondo l’uso linguistico italiano. La menzione di Francia e Spagna, quali culture che immediatamente ereditarono la riflessione sistematica degli Italiani, rende bene l’idea dei progressi e del continuo sviluppo della danza italiana a quell’epoca.
Amalia Brugnoli Samengo si esibì per la prima volta al mondo in punta di piedi nel 1823 a Vienna: ancora una volta l’Italia era di nuovo in testa nella già avviata rivoluzione del balletto, con l’adozione dello stile puntato, che la leggenda attribuì poi a Maria Taglioni (la quale effettivamente ballò sulle punte a Vienna, ma soltanto nel 1826; occorre attendere il 1832 perché la stessa Taglioni interpreti sulle punte un balletto completo, La silfide). La piccola Amalia Brugnoli si era iscritta nel 1813 all’Imperial Regia Accademia di Ballo del Teatro alla Scala, quando si inaugurava il primo anno di attività di quella scuola; fu così tra le prime allieve di Carlo Blasis a diplomarsi e a portare in giro per il mondo il metodo italiano di danza appreso a Milano. Si può tracciare una linea di continuità didattica, artistica e tecnica che collega grandi personaggi della danza italiana come il compositore e coreografo Salvatore Viganò (1769-1821), lo stesso Carlo Blasis (1803-1878), Giovanni Lepri (1826-1885) ed Enrico Cecchetti (1850-1928), che conclude il periodo d’oro della danza italiana: è proprio a questi quattro maestri che vogliamo rendere omaggio.
Salvatore Viganò nacque a Napoli nel 1769, figlio del ballerino e coreografo Onorato Viganò e della ballerina Maria Ester Boccherini; da giovane ricevette una formazione umanistica e approfondì la conoscenza dell’arte e della musica fra Roma e Venezia, negli anni in cui il padre collaborava con vari teatri (per esempio l’Argentina di Roma); debuttò molto giovane a Roma come ballerino, mentre l’esordio come coreografo avvenne nel 1793 a Vienna. Una decina di anni più tardi tornò in Italia, per rappresentare al Teatro alla Scala le sue creazioni più fortunate. Viganò fuse l’arte francese, basata sull’espressività, con l’arte italiana, che si concentrava di più sulla tecnica: la stilizzazione in forma danzata dalla pantomima teatrale fu opera del maestro, ideatore del coreodramma, in cui ai temi puramente mitologici se ne aggiungono altri, più modernamente drammaturgici, che fanno leva sulla dimensione corale e grandiosa dell’azione. Viganò poté assistere all’evoluzione dei soggetti melodrammatici, per esempio con l’inclusione degli intrecci shakespeariani nel repertorio italiano, scrivendo di conseguenza la coreografia di un Otello nel 1818 (su musiche di autori vari: Paolo Brambilla, Michele Carafa e ovviamente Gioachino Rossini, il cui Otello risale a solo due anni prima), dei Titani nel 1819 (su musica di Johann Kaspar Aibliger e dello stesso Viganò) o ancora di una Giovanna d’Arco nel 1821, sempre per la Scala. Grazie alla trasformazione tematica dei suoi libretti, la danza acquisì maggiore considerazione e fra le arti sceniche risultò più degna di rispetto che nel passato. Viganò introdusse anche altri cambiamenti profondi a livello estetico e tecnico; il ruolo maschile si connotò con più virilità e virtuosismo, perdendo le maniere effeminate di ascendenza francese e raddoppiando il tempo di esecuzione degli assolo. Tutto questo contribuì alla progressiva parificazione dell’importanza delle parti maschili rispetto a quelle femminili. Ancora prima dei trattati di Carlo Blasis, Salvatore Viganò seppe ispirarsi al mondo antico, alle arti decorative, alla scultura classica, alla pittura romana e alla tradizione filologico-antiquaria: nelle sue coreografie si ritrovano già gli arabesques, in occasione dei quali il corpo di ballo si dispiega sullo scenario in nuove posizioni leggere e aeree, al fine di rendere più naturale la recitazione.
Carlo de Blasis nacque a Napoli; è importante chiarire la singolarità della data di nascita del ballerino, coreografo, teorico e maestro di danza, nonché violinista italiano, nato da nobile padre spagnolo: secondo alcuni nel 1795, secondo altri dati nel 1799 o addirittura nel 1803; le fonti sono controverse, ma sembra che la ragione principale per ritardare la data di nascita risieda nella volontà di accentuare la precocità dell’artista. Il padre Francesco Antonio, compositore, insegnante presso il Conservatorio di Napoli e membro di varie accademie letterarie e musicali, dette al figlio un’educazione artistica molto accurata ed eclettica. Blasis esordi giovanissimo come danzatore a Marsiglia, città in cui trascorse l’infanzia e parte dell’adolescenza; poi si spostò a Bordeaux, dove poté perfezionarsi sotto la guida di Jean Dauberval, e successivamente proseguire per Parigi e Londra, continuando la propria formazione e assorbendo stimoli e novità internazionali. La fama di Blasis è legata alla sua capacità tecnica e alle sue pirouettes (al punto che lo chiamavano il “pirouetteur”); di ritorno in Italia ballò nei migliori teatri di Roma, Venezia, Firenze, Torino, e, soprattutto, alla Scala di Milano nell’aprile del 1819, ossia nel periodo in cui Viganò dominava ancora quel palcoscenico. In realtà Blasis era troppo giovane (ma già molto saggio) per ingaggiare una competizione con Viganò; al contrario, approfittò per impararne l’arte e le tecniche. Sulla scorta di un notevole riconoscimento artistico, sia come ballerino sia come coreografo agli esordi, nel 1820 pubblicò il Traité élémentaire theorique et pratique de l’art de la Danse, prima di molte pubblicazioni di carattere tecnico, che avrebbero ulteriormente e rapidamente consolidato la sua fama. Continuò a ballare fino al 1827, quando accettò una scrittura al San Carlo di Napoli, dove si verificò un triste incidente durante una prova: Blasis si slogò il piede sinistro, dovendo così interrompere la brillante carriera. Nel 1828 pubblicò in inglese The code of Terpsichore e altri saggi, ma occorre attendere il 1830 perché veda la luce il suo capolavoro letterario e tecnico, il Manuel complet de la Danse, ancora oggi apprezzato da ogni studioso della danza moderna. Grazie al pensiero di Blasis, la lezione di balletto accademico acquisisce una struttura che ancora oggi mantiene: per intuizione di questo Maestro il lavoro inizia alla sbarra, con esercizi di postura e meccanica, prosegue nello spazio centrale del salone con l’obbiettivo di realizzare compiutamente i singoli movimenti, includendo l’allegro (che in coreografia è la combinazione dei passai saltati) e una grande batteria (serie di salti in altezza); a completamento della lezione l’allievo deve cimentarsi in una combinazione coreografica che lo fa muovere per tutta la sala. È stato Blasis a formalizzare la tecnica che evita il senso di vertigine, che oggi si conosce come “spotting” o “punto di riferimento”: il ballerino deve girare la testa più velocemente del resto del corpo, mantenendo comunque per più tempo lo sguardo fisso verso un punto preciso; questo sistema di allenamento determina nel ballerino consapevolezza e percezione delle forze centrifughe e centripete del suo corpo. I presupposti di tale teoria sono conseguenza dell’esercizio che al giovane Blasis richiedeva il suo maestro, Jean Dauberval, il quale valorizzava il virtuosismo spingendolo a una spettacolarità in cui gli equilibri si prolungavano anche per 10/12 battute e le pirouettes acquistavano una velocità strabiliante. Esercitandosi per realizzare in modo impeccabile queste richieste, Blasis andò formulando una serie di teorie, che più tardi avrebbe collegato sistematicamente. Il suo studio si concentrò anche su posizione e inclinazione del danzatore al fine di realizzare arabesques o altri esercizi di elevazione; puntualizzò l’importanza dei tendus e dei pliés, spiegando come preparare lo slancio sufficiente per i salti e al tempo stesso come ammortizzare le cadute, per non danneggiare le vertebre lombari. La tradizione successiva attribuì a Blasis anche la codificazione dell’attitude, desunta direttamente dalla celebre statua del Mercurio volante di Giambologna, conservata al Museo del Bargello di Firenze; in realtà, abbiamo già accennato all’abitudine di ispirarsi alle arti decorative del classicismo come un tratto distintivo di tutti i maestri coreografi, anche prima dell’epoca di Blasis. Pertanto, l’accostamento tra la figura coreografica e la statua cinquecentesca non è errato, ma nemmeno originale, in quanto la fama che a partire dal Seicento aveva accompagnato proprio questa statua (riprodotta e divulgata in miniatura in tutta Europa come ricordo del viaggio in Italia), già alla fine del Settecento era diventata oggetto dell’attenzione degli studiosi della danza. Oltre agli aspetti tecnici, Blasis capì quale fosse l’importanza del fisico dei ballerini per un’adeguata interpretazione di ogni ruolo, a conferma che l’espressività e il senso estetico erano per lui decisivi nella riuscita di un balletto. Nel 1837 divenne direttore della Scuola di Balletto del Teatro alla Scala, ricoprendo questo incarico fino al 1850. Ancora oggi è considerato il pedagogo più importante di tutto il secolo XIX grazie al suo apporto, sia teorico-concettuale sia pratico. Fu autore di circa novanta balli e una ventina di saggi di storia e teoria della danza. I testimoni più vicini a lui lo descrivono come un perfezionista, sia come danzatore sia come teorico: quando era necessario corredare i trattati di figure con le varie pose plastiche, era il maestro stesso a posare come modello: unico modo per soddisfare appieno le sue esigenze tecnico-pedagogiche. Tali illustrazioni costituiscono un esempio innovatore di precisione didascalica e pedagogica: in quasi tutte il danzatore appare nella posizione effacé (la cui frontalità permette di visualizzare ogni dettaglio della postura di entrambe le gambe e di tutto il corpo), per illustrare elevazione e rotazione (dehors) della caviglia così come di innumerevoli altri particolari. La collaborazione didattica della moglie – la celebre ballerina e mima Annunziata Ramaccini – gli permise di osservare e sperimentare varie pratiche coreutiche, sia sul corpo maschile sia su quello femminile, raggiungendo un’esperienza tanto ampia, di cui nessuno prima di loro aveva potuto giovarsi: «la coppia Blasis-Ramaccini è rimasta l’espressione massima dell’insegnamento della danza accademica, sia pubblico, sia privato» (come scrive Ottolenghi 1968: v. Bibliografia). La gestione di Blasis dell’Accademia milanese non solo infuse nuova vita all’arte della danza in Italia, ma determinò anche un’enorme influenza su tutto il continente, dalla Russia all’Austria, dalla Germania all’Inghilterra. Blasis credeva ciecamente nel principio enciclopedico dell’infinità e complementarietà delle arti, proponendosi di realizzare nel campo della danza, sulle orme di Noverre e Viganò, il vagheggiato spettacolo unitario che le riunisse armonicamente tutte quante. Blasis morì a Cernobbio il 15 gennaio 1878. «Era un uomo colto, letterato, egregio che aveva scritto e pubblicato molto intorno all’arte della danza, che conosceva in tutti i più mirabili dettagli, nelle più delicate sfumature, rendendola arte intellettuale, e non solo arte ginnastica»: così scriveva Claudia Cucchi, sua allieva, nel 1847, anno in cui quarantaquattro teatri tra Europa e America potevano vantare tra i loro primi ballerini gli alunni dei coniugi Blasis (secondo un articolo di «Le Figaro» del 13 ottobre). L’elenco ricostruibile degli allievi è interminabile, e già all’epoca essi si riunivano in gruppi di eccellenza, (come quello delle Pleiadi). Tra i nomi più celebri: Marietta Baderna, Flora Fabbri, Amalia Ferraris, Sofia Fuoco, Fanny Cerrito, Carlotta Grisi, Carolina Pochini, Claudina Cucchi, Pasquale Borri, Margherita Wuthier, Amalia Brugnoli, Carlo Dalla Croce, Amaturo Aniello, Giovanni Lepri, Carlo Lorenzini, Luigia Bellini e tanti altri. Oltre agli italiani anche ottimi ballerini stranieri si diplomarono o si perfezionarono con i Blasis.
Di Giovanni Lepri sono ignoti il luogo e la data di nascita; la prima segnalazione che lo identifica come danzatore risale al 1843, anno in cui si esibì a Livorno e quindi a Perugia nel balletto Sofia di Moscovia di Antonio Monticini. Nel 1846 al teatro della Concordia di Cremona fu “primo ballerino danzante assoluto di rango francese”, titolo riservato ai danzatori che si distinguevano per lo stile esecutivo elegante e raffinato. Nel 1847 si perfezionò come allievo particolare del maestro Carlo Blasis, proprio al tempo in cui quest’ultimo era direttore e maestro di perfezionamento dell’Imperial Regia Accademica di Ballo del Teatro alla Scala. Lepri poté così beneficiarsi di uno studio rivolto alle doti tecniche e interpretative, alla luce di una più generale educazione artistica che soltanto Blasis poteva garantire al più alto livello. Nella sua lunga carriera Lepri si esibì nei principali teatri italiani, dove ebbe modo di interpretare numeri solistici che egli stesso aveva composto per le varie produzioni, secondo l’usanza di quel periodo (in cui i coreografi si concentravano sui ruoli femminili, mentre gli interpreti maschili si occupavano personalmente delle proprie variazioni). La tecnica coreutica di Lepri veniva salutata ovunque con grande ammirazione, nell’ambito di una bene affermata generazione di ballerini italiani, che costituiva un’autentica eccezione rispetto alla generale situazione europea; non a caso Lepri veniva scritturato regolarmente in qualità di “primo ballerino di rango francese”, ossia con una qualifica che si riferiva alle sue capacità tecniche. La vecchia distinzione fra ballerini “di rango francese” e quelli di “rango italiano” conferiva una sorta di primato tecnico ai primi, ponendo in secondo piano la tradizione italiana, più qualificata nel campo mimico-espressivo. Oltre a Milano e Torino, la città con la quale Lepri ebbe rapporti professionali più significativi fu Firenze. «L’Italia Artistica» del 21 marzo 1864 annunciava nella rubrica Omnibus il nome del vincitore del concorso per il posto di Maestro di perfezionamento della Scuola di ballo: «L’esimio artista di danza Giovanni Lepri è stato nominato maestro di ballo della scuola che va ad aprirsi in Firenze» (citato in Poesio 1993: v. Bibliografia); seguendo il modello scaligero e quello del San Carlo di Napoli, anche Firenze aprì una scuola annessa al Teatro La Pergola, dove Lepri venne assunto come maestro di perfezionamento. Sempre a Firenze risalgono le sue ultime apparizioni come danzatore, negli anni 1867-1868, quando si esibì in una coreografia di Cesare Cecchetti, che tra l’altro gli aveva affidato come allievo presso la scuola fiorentina il figlio Enrico. Le ultime segnalazioni sul maestro riportano il suo ruolo di direttore del corpo di ballo dello spettacolo Castles in Spain, presentato in Spagna, Cuba, Messico, e infine a New York nel 1881; la prima ballerina di questa impresa fu la figlia Amalia, che presumibilmente nel 1882 si stabilì insieme con il padre in Messico, dove Lepri visse sino alla morte, che si ipotizza avvenuta fra 1892 e 1893.
Enrico Cecchetti nacque a Roma il 21 giugno 1850 in un camerino del teatro Tordinona, rampollo di una famiglia di ballerini, coreografi e maestri della danza italiana: il padre Cesare fu ballerino e coreografo; Giuseppe, suo fratello, fu ballerino e coreografo; Pia, sua sorella, ballerina. Il piccolo Enrico apparve per la prima volta sulla scena a Genova quando aveva cinque anni; studiò nell’accademia di danza di Firenze, dove divenne pupillo di Francesco Baratti e di Giovanni Lepri, raggiungendo rapidamente una tecnica brillante. Ancora giovane, ballò per il Ronzani Ballet, una compagnia molto in voga in quel periodo; nel 1857 si esibì al teatro Pagliano di Firenze, nel 1868 fu impegnato in una piccola tournée e debuttò alla Scala di Milano; nel 1870 lavorò in Danimarca, Norvegia, Olanda, Germania, Austria e Russia (teatri di San Pietroburgo) e nel 1887 divenne ballerino principale e secondo maître del Teatro Marijnski. Nel 1888 fu ballerino principale nell’Empire Theatre di Londra, maestro e ripetitore nel tour di Ana Pavlova nel 1913, tornò a insegnare a Londra nel periodo dal 1918 al 1923, e da ultimo a Milano nel 1925, quando ormai godeva di un grande riconoscimento internazionale come maestro. Il lavoro di studio, insegnamento e metodologia di questi grandi maestri è stato di vitale importanza per l’intero mondo della danza; essi sono stati i pilastri di tante scuole e metodi, da Viganò a Blasis, da Lepri a Cecchetti; la linea didattica e artistica è stata continua e al tempo stesso originale, perché ognuno di essi ha contribuito in maniera preziosa all’innovazione e alla continuità della tradizione. Il “metodo Cecchetti” è rimasto in vigore a lungo e si è propagato ad altre scuole; nel 1922 fu pubblicato in Gran Bretagna per cura di Cyril Beaumont La teoria e pratica della danza classica teatrale secondo il metodo Cecchetti, che però si ispirava anche alle linee guida ideate da Blasis. Per esempio, l’altezza del passé al ginocchio era opera di Cecchetti, così come la tecnica di batteria e del salto con le gambe piegate. Alla purezza delle linee di tale metodo si ispirarono moltissimi artisti del XX secolo, che studiarono sotto la guida del maestro o di suoi allievi: Anna Pavlova, Tamara Karsavina, Vera Trefillova, Matilde Kshesinskaya, Olga Preobrazhnska, Vaslav Nijinski, Léonide Massine, Serge Lifar, Mikhail Fokine, Agrippina Vaganova, Boris Ramanov, Aleksandr Gorsky, Adolph Bolm, Mikhail Mordkin, Ninette de Valois, Alexandra Danilova. Nel lungo periodo di permanenza a Mosca, Cecchetti non solo divenne il maestro della Pavlova, ma venne anche assunto come maestro della celebre compagnia diretta da Diaghilev, i Ballets Russes, che grazie a lui accrebbero il loro altissimo livello tecnico per trionfare negli anni a seguire in tutto il mondo. Nel 1922, quando il maestro stava per ritirarsi, Cyril Beaumont fondò a Londra insieme a un gruppo di ballerini la Cecchetti Society, con il proposito di diffondere e vigilare il suo metodo di danza; ancora oggi, in tutto il mondo, esistono filiali di questa organizzazione, o entità analoghe, che si richiamano al nome del maestro italiano. Cecchetti, figlio d’arte, nacque, visse e morì nel teatro di danza; per una singolare combinazione, infatti, dal primo vagito in quel camerino del Teatro Tordinona a Roma, fino all’ultimo respiro nella sala di prova dell’Accademia della Scala, tutta la sua vita fu dedicata alla danza e alla sua pratica.
Principale bibliografia utilizzata
A. Ascarelli, Cecchetti, Enrico, in Dizionario Biografico degli Italiani, 23, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1979 = online.
C. Celi, Lepri, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, 64, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005 = online.
V. Ottolenghi, Blasis, Carlo de, in Dizionario Biografico degli Italiani, 10, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1968 = online.
F. Pappacena, Ricostruzione della linea stilistica di Carlo Blasis, Meltemi, Milano 2003 = «Chorégraphie. Rivista di ricerche sulla danza», n.s. 1 (2003).
F. Pappacena, Il rinnovamento della danza tra Settecento e Ottocento: il Trattato di danza di Carlo Blasis, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2009.
G. Poesio, Il maestro Giovanni Lepri e la sua scuola fiorentina, «Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza», I 1 (1993), pp. 69-75.
L. Rossi, Il ballo alla Scala 1778-1970, Edizioni della Scala, Milano 1972, pp. 51-109.
G. Tani, Storia della danza dalle origini ai nostri giorni, I, Olschki, Firenze 1983, pp. 357-497.
Tutte le illustrazioni sono tratte da Traité élémentaire, théorique et pratique de l’art de la danse par Ch. Blasis, premier danseur, Milan, 1820. Chez J. Beati et A. Tenenti.