Festival di Salisburgo 2019: Andrew Manze & Francesco Piemontesi in concerto

 

Salisburgo, Grosser Saal, Mozart Matinée 2019
Orchestra del Mozarteum
Direttore Andrew Manze
Pianoforte
Francesco Piemontesi
Wolfgang Amadeus Mozart: Divertimento KV 137, Concerto per pianoforte e orchestra KV 595, Sinfonia n°40 KV 550
Salisburgo, 10 agosto 2019
Che si va a fare a Salisburgo, magari in agosto? Si fanno meravigliose escursioni sul Dachstein, si sorseggia un caffè al Tomaselli, si fanno due passi ai giardini Mirabell e ovviamente si ascolta tanta musica, eseguita anche per strada a un livello mediamente impensabile per qualunque altra città europea. Che musica? Ovviamente soprattutto musica classica, anzi La Musica Classica, quella che al di là della comune vulgata si identifica precisamente con la produzione musicale scritta tra la seconda metà del diciottesimo secolo e i primi anni del successivo. Di quali compositori? Prima di tutto i grandi classici “viennesi”, quelli che certa critica identifica come gli unici veri autori di Musica Classica: Franz Joseph Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven. Ma siamo a Salisburgo e, tra paperi imparruccati, palle di cioccolato e altri souvenir sulla Geteidregasse, è inevitabile imbattersi continuamente nel divino Amadeus e nella sua musica, celebrata in modo mirabile soprattutto dall’ultracentenario festival a lui dedicato. Il Salzburger Festspiele, nato come tardivo riconoscimento al genio del proprio illustre figlio, è attualmente uno dei più importanti festival del mondo, forse il più importante, nobilitato dalla presenza storica nel proprio albo d’oro dei più grandi interpreti di ogni tempo: è inevitabile soddisfare la curiosità di ascoltare la musica di Mozart allo stato superiore dell’arte, realizzata dalle orchestre che respirano la sua musica fin dalla nascita e, per giunta, nella sala magica del Mozarteum. L’anima classica di cui sopra, tra i vari repertori orchestrali in programma, quest’anno sembrava incentrata soprattutto su due produzioni che, come vedremo, non hanno mancato sia nelle aspettative esecutive che nell’interesse obiettivo della proposta artistica. La prima, presentata come Mozart-Matinee, ha visto protagonista proprio la storica orchestra del Mozarteum diretta da Andrew Manze, impegnata in un programma integralmente mozartiano. Due parole, a questo punto, sono necessarie sull’acustica della Grosser Saal del Mozarteum; si tratta di un auditorium semi-ellittico dei primi del novecento, decorato in uno stile vagamente neo-rococò-liberty, semplicemente perfetta per ascoltare musica orchestrale senza fastidiose risonanze o enfatizzazioni. Tranne una piccola eccezione, che vedremo più avanti.Il concerto apriva con il divertimento KV 137, opera giovanile che, sia nella struttura che nella tensione del materiale tematico, si discosta decisamente dalla superficiale brillantezza delle composizioni del genere. L’orchestra ha subito mostrato quale sarebbe stata la lettura di Manze, perfettamente inserita in una tradizione capace di sposare il rigore tecnico e l’approccio filologico con una cantabilità tipicamente italiana. Archi rapidi e leggeri, con poca pressione (ma non poco peso…) pochissimo vibrato, cura nelle messe di voce, fraseggio elegante e ben portato in tutte le risposte: una meraviglia da contemplare anche solo a livello sensoriale. Ma è col concerto per pianoforte e orchestra KV 595 che la performance esecutiva inizia a raggiungere vertici artistici di tutto rispetto. Inutile sottolineare la perfezione tecnica di certi dettagli, anche insignificanti: mai sentite le acciaccature degli archi nel primo tempo così insieme e coordinate. Ma sono la commovente cantabilità del secondo tempo, lo sfumare calibrato delle frasi, il controllo dinamico assoluto e la qualità sonora dell’insieme a creare una tensione espressiva che diventa pura poesia. Francesco Piemontesi è perfettamente inserito in un dialogo che non si risolve mai in una mera sovrapposizione solista-orchestra e appare motore propositore di innumerevoli idee e varianti degli elementi base, sia nel fraseggio che nello slancio dinamico. La tecnica appare sciolta, ben articolata e giustamente concentrata su una inesauribile varietà espressiva nel tocco e nella qualità del legato; francamente è però apparsa talvolta eccessiva una pedalizzazione che ha reso ridondanti e confusi alcuni passaggi. Da segnalare la splendida conclusione nella cadenza del terzo tempo, con una ripresa tematica elegantemente esitante che, in ripresa, trascina irresistibilmente tutta l’orchestra verso la chiusa finale. L’iconica sinfonia n°40, che concludeva il programma, è stata, senza mezzi termini, la più bella esecuzione che abbia mai sentito, incisioni comprese dei più celebrati direttori del passato. Affermazione impegnativa, ma bisogna fare una premessa, chiosa all’accenno sull’acustica di prima: l’orchestra era disposta concentrando tutti i fiati al centro, dietro gli archi, in prossimità del grande organo della sala. Come in parte notato anche per il concerto, forse per un effetto di risonanza delle casse dell’organo o per un punto di locazione acustica e di ascolto o anche per qualità intrinseca degli strumentisti, l’effetto generale era di una evidente esaltazione delle armoniche scure prodotte dai fiati, con un risultato decisamente sorprendente, ma tutt’altro che peregrino, negli equilibri di uno dei brani più conosciuti del repertorio. La rotondità e la perfetta intonazione dei corni naturali, la fusione mirabile e scura delle ance coi flauti hanno dato una prospettiva e un colore inediti a un capolavoro che rischia ormai lo sfinimento a ogni esecuzione. Una menzione in tal senso va data al primo clarinetto che non solo ha mostrato un suono bellissimo e una precisione tecnica assoluta, ma è stato capace di personalizzare certi interventi con uno stile perfetto e una libertà agogica comunque rigorosamente aderente alla lettura collettiva. In questo senso va vista soprattutto la qualità della lettura di Manze, non direttore despota o inventore di strampalate letture “originali”, ma capace di indirizzare straordinari musicisti in stato di grazia che, oltre a eseguire rigorosamente lo scritto, appaiono ricchi di pronunce e sfumature di una qualità semplicemente impensabile per chi non approfondisce questa musica quotidianamente. I tempi sono mediamente scorrevoli, inquieti, venati da una drammaticità che emerge anche nelle parti più distese. Il primo movimento, dallo sviluppo in poi, è un mirabile affresco di colori e accenti perfettamente coerenti in ogni ripresa, in ogni parte e in ogni registro, con un’energia collettiva che lascia stremati e commossi alla cadenza finale. Strepitoso anche l’Andante, sicuramente il movimento più difficile, sempre ben teso e fraseggiato, con una flessibilità che però non concede nulla al rigore del ritmo puntato e un’espressione eterea e malinconica che sembra di sentire per la prima volta. Sono apparsi spediti e ben scolpiti anche il Minuetto e il Trio, evidenziati nelle loro caratteristiche più danzate, ed è stato semplicemente irresistibile il finale, dove la rapidità e l’urgenza non hanno mai ceduto alla confusione e all’effetto fine a se stesso. Un bellissimo concerto che dimostra, se fosse necessario, l’insondabile profondità di certi capolavori. Foto Marco Borrelli