Milano, Teatro alla Scala:”L’elisir d’amore”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/19
“L’ELISIR D’AMORE”
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Felice Romani da “Le philtre” di Eugène Scribe

Musica di Gaetano Donizetti
Adina ROSA FEOLA

Nemorino RENÉ BARBERA
Belcore MASSIMO CAVALLETTI
Il Dottor Dulcamara AMBROGIO MAESTRI
Giannetta FRANCESCA PIA VITALE
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Michele Gamba
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Grisha Asagaroff
Scene e costumi Tullio Pericoli
Luci Hans-Rudolf Kunz
Milano, 27 settembre 2019
L’elisir d’amore ha in se il dono raro della grazia e della leggerezza: il suo essere una perfetta geometria musicale di una semplicità e di una grazia che sanno sempre conquistare ne fanno uno di quei pochi titoli che – se eseguito con la giusta qualità esecutiva – non perde mai la freschezza della prima volta, nonostante le infinite rappresentazioni, riuscendo sempre a toccare il cuore del pubblico. Il miracolo si è ripetuto con la recente produzione scaligera che ha mostrato di avere tutte le carte in regola per rendere al meglio il capolavoro donizettiano. Per la parte scenica, si accoglie con gioia la ripresa dell’allestimento firmato per scene e costumi da Tullio Pericoli, nato nel 2001, ma che ha mantenuto tutto il suo stupefatto candore. Ripreso con gusto e intelligenza da Grisha Asagaroff – che concede qualche garbata controscena mai eccessiva o invadente –, lo spettacolo ci immerge in un mondo di fiaba, una sorta di cartone animato in tempo reale. I fondali dipinti fanno comparire come d’incanto ampie foreste, colline, architetture dalle prospettive stravolte, trionfi di frutti. É un mondo assolutamente anti-realistico e fiabesco che contribuisce a dare alla vicenda un carattere magico. Uno spettacolo che – opportunamente, a parere dello scrivente – rinuncia a cercare ombre o tensioni e ci fa vivere un momento di evasione fantastica, un ritorno agli incanti dell’infanzia e ai palpiti del primo amore adolescenziale, senza ingombrare l’idillio d’inutili ombre.
L’orchestra scaligera era diretta per l’occasione da Michele Gamba, giovane maestro milanese e già collaboratore di Pappano a Londra, che opta per una lettura tesa e vivace, scegliendo un’agogica molto marcata e un andamento ritmico sostenuto, specie nelle strette, ma capace anche di un apprezzabile abbandono lirico quando la partitura lo richiede: l’appuntamente con “Una furtiva lagrima” si fa apprezzare per i  tempi distesi e la bella cantabilità orchestrale. Il fraseggio è sempre molto curato così come il gioco dei colori. Unica pecca: una tendenza a sonorità troppo esuberanti, con il rischio di coprire a tratti i cantanti. Sul piano delle scelte esecutive gli va riconosciuto di aver riaperto il taglio – ancor oggi troppo di frequente praticato – del quartetto con coro del II atto. Sono però ancora troppi i tagli dei recitativi compreso quello teatralmente fondamentale in cui Dulcamara rivela la morte dello zio e l’eredità avuta da Nemorino.
Deliziosa l’Adina di Rosa Feola, ormai cantante di riferimento sul palcoscenico scaligero per questi ruoli di mezzo-carattere: voce non grande ma controllata in modo esemplare, timbro luminoso, acuti facili e squillanti. Allieva di Renata Scotto, se ne ritrova l’attenzione per il fraseggio, la cura dei dettagli espressivi, l’attenzione alla recitazione: la Feola è infatti anche ottima attrice, curata nel gesto e nella mimica in modo da rendere ancor più accattivante il personaggio che nella sua lettura non nasconde fin dal principio una certa simpatia per Nemorino, un René Barbera che si conferma come uno dei più interessanti tenori donizettiani di questi anni. Bel timbro schietto e luminoso, grande facilità in acuto – e più di un interesse ci sarebbe nel sentirlo impegnato in ruoli donizettiani più seri che per impostazione vocale sembrerebbero ideali per la sua attuale vocalità. Si apprezzano un ottimo controllo del fiato – veramente ammirevoli i pianissimi di “Una furtiva lagrima” – il gusto per un canto nobilmente sfumato, la naturale comunicatività dell’accento. Ambrogio Maestri presta a Dulcamara tutta la sua sicurezza vocale; l’artista conosce, infatti, il ruolo alla perfezione e sa sfruttarne pienamente le possibilità sia vocali sia sceniche, giocando al meglio anche la propria fisicità all’interno del taglio cartoonesco dello spettacolo. Il baritono si concede qualche trovata, giocando con le parole del libretto, adattando i versi di Romani alla propria individualità – “ch’io son nato nel paese” diventa “pavese”, “tutto portento egli è del mio decotto” si trasforma in “risotto” – ma la cosa non disturba ed anzi riesce a strappare un sorriso.
Massimo Cavalletti è sicuramente più a suo agio come Belcore che nei grandi ruoli verdiani pur affrontati. La voce ha una bella presenza e, se il canto a tratti difetta un po’ di controllo, il tono guascone che lo contraddistingue non guasta affatto per il personaggio.
Bella presenza scenica, voce piacevole e fraseggio preciso e puntuale per la Giannetta di Francesca Pia Vitale, una dei giovani dell’Accademia scaligera cui, con sempre maggior sistematicità, si tende ad affidare le parti di contorno. Come sempre inappuntabile la prova del coro.
Sala gremita come poche altre volte nella stagione e successo più che caloroso per tutti gli interpreti.