Opera di Roma: “Work in Progress” & “Waiting for the Sibyl” di Alexander Calder e William Kentridge

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2018/2019
“WORK IN PROGRESS”di Alexander Calder
Immagini teatrali coordinate da Giovanni Carandente e presentate da Filippo Crivelli  su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna
“ WAITING FOR THE SIBYL”
Ideazione e regia di William Kentridge
Con musica composta ed elaborata da Nhlanhla Mahlangu e Kyle Shepherd 

Allestimenti del Teatro del’Opera di Roma
Si ringrazia la Calder Foundation per la preziosa collaborazione 

Roma, 13 settembre 2019
La serata offerta dal Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito della stagione in corso  ha proposto due lavori teatrali pensati da due artisti contemporanei Alexander Calder e William Kentridge non riconducibili ad alcun genere definito come balletto, opera o prosa pur contenendo al loro interno attori, video, cantanti, danzatori, azioni sceniche, sculture mobili. La prima parte ha riproposto “Work in Progress” uno spettacolo già presentato al Teatro dell’Opera dall’Autore nel 1968 grazie alla collaborazione di Giovanni Carandente e di Filippo Crivelli. E proprio grazie alle cure di quest’ultimo lo spettacolo è stato ripreso nella attuale messa in scena. Nell’arco di 20 minuti con un ritmo libero ma sostenuto, in varie scene separate da sipari colorati si muovono le sculture mobili di Calder, i “mobiles”,  in una sorta di luminoso caleidoscopio della mente nel quale affiorano elementi in parte immediatamente ravvisabili ed  in parte probabilmente destinati a risuonare autonomamente nell’immaginario di ciascuno. E così ecco materializzarsi il ricordo delle forme e delle linee di Mirò, dei colori primari di Mondrian, della storia dell’origine del cosmo e della vita così come appariva nei libri americani degli anni ’50, i ciclisti come simbolo della velocità, tutto questo in continuo  e armonico apparire, trasformarsi e svanire in una variopinta e dinamica metafora della vita anche grazie ad un sapiente gioco di luci. La parte visiva era sostenuta ma forse è meglio dire “dialogava” con le musiche elettroniche di Maderna, Clementi e Castiglioni il cui linguaggio in apparenza sconnesso e frammentario colorito da sonorità ora aspre, ataviche  e primigenie ora pure ed assolute o declinate in inattese morbidezze, ben si armonizzava con le linee, le forme,  i colori e le dinamiche della parte visiva. Nella seconda parte della serata,  data anche la brevità del primo componimento presentato e con l’intento di presentare un’opera prima, il Teatro  ha invitato William Kentridge  a ideare un secondo pannello di un ideale dittico che in qualche modo si innestasse sul lavoro di Calder. Il lavoro proposto dal regista, già ospite del teatro in occasione della Lulu di Alban Berg, rappresenta anche esso una metafora della vita  e del desiderio umano di interrogarsi e conoscere il proprio destino. Le foglie sulle quali la sibilla scriveva i propri responsi vengono continuamente trasformate in pagine di un libro come elementi che potrebbero rappresentare un sistema ordinato che  viceversa viene frammentato e per l’appunto scompaginato in un caos non più decifrabile. L’idea del movimento quale forza vitale contenuto nel lavoro di Calder appare qui trasformata in senso pessimistico in una dinamica dissipatrice di un ordine possibile solo in teoria, il quale riesce a trovare una sua coerenza proprio nella frammentazione e nella sostanziale impossibilità di farsi comprendere. La composizione è concepita su un organico articolato di 5 danzatori, 4 vocalisti che agiscono su musiche registrate composte appositamente da Nhalanhla Mahlangu e Kyle Shepherd che si sviluppano in un ambito tonale piacevole e sincretistico. Il lavoro di Kentridge di indubbio interesse nella sua originalità risulta tuttavia all’ascolto secondo noi un po’ prolisso soprattutto se messo a confronto con la assoluta icastica concisione dell’opera di Calder. Alla fine applausi educati per “Work in progress” e più entusiastici per “Waiting for the Sibyl” anche grazie alla grande bravura degli interpreti e probabilmente al fatto che il componimento parlava un linguaggio più familiare per il pubblico dell’opera.