Verona, Teatro Filarmonico, Accademia Filarmonica di Verona, XXVIII Settembre dell’Accademia
Orchestra Filarmonica della Scala
Direttore Myung-Whun Chung
Pianoforte Alexander Romanovsky
Sergej V. Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore Op. 30
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n. 6 in si minore Op. 74 “Patetica”
Verona, 20 settembre 2019
Una serata straordinaria, quella dello scorso venerdì al Teatro Filarmonico di Verona. Il quarto appuntamento del Settembre dell’Accademia 2019 (edizione 28 per la storica Accademia Filarmonica veronese, la quale vanta 476 anni di storia) ospitava l’Orchestra Filarmonica della Scala, fondata nel 1982 dall’allora reggente scaligero Claudio Abbado e di seguito consacrata in Italia e all’estero non solo per il ricco repertorio lirico ma anche e soprattutto per le interessanti incursioni in ambito sinfonico, sotto prestigiose bacchette. Raccolto il testimone dallo scomparso maestro Carlo Maria Giulini, il coreano Myung-Whun Chung ha proseguito negli anni nel solco di una certa tradizione esecutiva e speciale rapporto di fiducia con la compagine milanese, che si è tradotta in numerosi concerti e una buona consuetudine con le tournée. Le ragioni di questo felice e duraturo sodalizio si sono viste ampiamente nella seconda parte del programma di quest’anno ma erano facilmente intuibili anche nella prima: il Terzo concerto di Rachmaninov, pagina temibile grazie anche alla (oppure per colpa della) nomea creatale dalla pellicola Shine, è in effetti banco di prova per i pianisti più che per l’orchestra. Chung è qui un po’ fuori dal suo repertorio d’elezione, comunque piuttosto onnivoro ma concentrato sempre più al sinfonismo tardoromantico: dirige con la partitura sott’occhio, con una discrezione ammirevole, esortando l’orchestra solo nell’ultimo movimento a spingere davvero nel “tutti”, ricercando altrove un suono tenue e morbido, che funge come una malinconica patina (seppure aurea) al solista. Mai dialogo è stato tanto raffinato e ben controllato, grazie al pianismo duttile e sensibilissimo di Alexander Romanovsky, solista giovane ma perfettamente calibrato e consapevole, mai esteriore nei virtuosismi e mai gigione nel pianissimo o nella fluente melodia di Rachmaninov. Il dialogo è così ben riuscito che, in particolare nei movimenti estremi, quando il solista emerge e l’orchestra tace, pare un’orchestra il pianoforte stesso, foriero della stessa varietà dinamica offerta dalla ricca compagine milanese.
L’uso del rubato è piuttosto parco e funzionale, nonché circoscritto al pianista, che se sporca qua e là gli accordi ridondanti del primo tempo, recupera e supera stesso nella vertigine dell’ultimo movimento, con quella girandola che -succede con Chung- all’improvviso accelera leggermente poco prima del suo compimento. Una lezione di sensibilità e di classe, che fa scatenare il pubblico (sold-out il teatro). Numerosissime le chiamate al proscenio: Romanovsky concede due bis, un vorticoso studio 12 op. 10 di Chopin (talmente ricco anch’esso di impeto di dinamiche da avvicinarsi non poco al Concerto appena terminato) e, come decompressione dagli atletismi degli ultimi 50 minuti, una libera interpretazione del gershwiniano The man I love (magari fuori dalle corde di Romanovsky, ma sempre e comunque ammirevole). Il pianista russo è costretto a portarsi via il primo violino e con esso tutta l’orchestra per poter uscire di scena. La seconda parte è stata un capolavoro altrettanto grande: la “Patetica” (si dovrebbe dire in realtà “l’appassionata”) di Čajkovskij è il suo testamento spirituale nonché una rivoluzione nella storia della sinfonia. L’interpretazione datane da Chung è stata quella di un dramma solenne e composto ma pur sempre un dramma, i cui spiragli di luce non sono frutto di una mente allucinata ma ultimi sprazzi di tenerezza ed entusiasmo nella vita di chi non spera più. Così gli ottoni risaltano ancora di più negli ultimi movimenti, nella loro discrezione, come una pulsazione lieve sempre presente, un battito cardiaco regolare per una tragedia imminente.
Il clarinetto (spettacolare nella resa tecnica) intona il suo celebre tema discendente quasi apparendo dal nulla, in un canto desolato ed efficace proprio perché incredibilmente intimo. Chung non dirige la Filarmonica della Scala come penseremmo, la accarezza, la esorta; pur non perdendo un attacco (questa sì che la dirige a memoria), non impone nulla ma invita, non imbriglia col gesto i quasi cento orchestrali ma fornisce una area base su cui spetta agli altri costruire, mettendo in gioco se stessi, come artisti e uomini. Sono veramente pochi i gesti perentori (quel colpo verticale, come una spada, al climax del primo movimento) e perfettamente calibrati, come inevitabile epilogo e sfogo di crescente tensione.
Un dolore che si accumula sottile anche sotto i due tempi centrali, quello sghembo valzer in 5/4 e quella folle marcia che fa partire inevitabilmente l’applauso… sedato il quale, Chung attacca il doloroso ultimo Adagio lamentoso, con gli archi caldi ma scuri, compatti, levigati eppure taglienti. Un requiem che pare non spegnersi mai in quella lentissima ultima nota dei contrabbassi, eseguita mirabilmente morendo fino al silenzio e creando qualche secondo (forse pochi, ma quando si crea quella magia in sala si vorrebbe che tale clima di sospensione attonita non finisse mai). L’applauso esplode dopo, confermando la validità dello shock concepito sulla carta da Čajkovskij ed efficace come non mai, se eseguito così, da grandi maestri. Chung lo è. Applausi interminabili ma niente bis: dopo questo vero e proprio rito, sarebbe stato importuno quanto venire ad un concerto sinfonico con una borsetta borchiata a cembali. Foto Brenzoni
