Cremona, Teatro Ponchielli: “Guglielmo Tell”

Cremona, Teatro Amilcare Ponchielli, Stagione d’Opera 2019-2020 GUGLIELMO TELL
Melodramma tragico in quattro atti, su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy e Hyppolite-Louis-Florent Bis, tradotto da Calisto Bassi, tratto da “Wilhelm Tell” di Friedrich Schiller.
Musica di Gioachino Rossini
Guglielmo Tell GËZIM MYSHKETA
Arnoldo GIULIO PELLIGRA
Matilde MARIGONA QERKEZI
Gualtiero Farst DAVIDE GIANGREGORIO
Melchtal PIETRO TOSCANO
Jemmy BARBARA MASSARO
Edvige IRENE SAVIGNANO
Pescatore NICO FRANCHINI
Leutoldo LUCA VIANELLO
Gessler ROCCO CAVALLUZZI
Rodolfo GIACOMO LEONE
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro Opera Lombardia
Direttore 
Carlo Goldstein
Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina
Regia
Arnaud Bernard
Scene Virgile Koering
Costumi Carla Galleri
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento Teatri OperaLombardia in coproduzione con Fondazione Teatro Verdi di Pisa
Cremona, 04 ottobre 2019
Il concept del “Guglielmo Tell” in questi mesi in scena presso i teatri lombardi è quello dello “Schiaccianoci”: una storia cruenta che si stempera, però, nel fiabesco, poiché vista attraverso gli occhi del bambino che la sogna, sia di notte che, ad occhi aperti, mentre qualcuno gliela racconta – in questo caso, mentre lui stesso la legge. È così che l’indiscusso protagonista di questa versione diventa Jemmy, o meglio un bambino giamburrasca di una famiglia di inizio Novecento, che legge la storia dell’eroe svizzero e si identifica nel di lui figlio. Nella lunga e celebre Ouverture, vediamo il fanciullo cercare in tutti i modi di leggere il suo libro, mentre la sua borghesissima famiglia – madre (Edwige), padre (Guglielmo), sorella (Matilde), fratello (Gualtiero), nonno (Melchtal) e pretendente della sorella (Arnoldo) – cerca di cenare. Le bravate del ragazzino, infine, riusciranno ad allontanare gli altri, e così, mentre si dedica alla lettura, ecco che i personaggi dell’opera vera e propria prendono vita, uscendo dal camino e dalla credenza e costruendo con semplici oggetti una Svizzera stilizzata ed efficace all’interno della sala da pranzo. Lo stratagemma si ripropone negli altri atti: il secondo è il sogno di un bambino nella sua camera da letto, il terzo prende vita osservando il maggiordomo pulire il grande lampadario di cristallo del soggiorno, e l’ultimo ritorna nella sala, stavolta prima di pranzo, dove, alla fine, i familiari perdonano al bambino le marachelle, e la sorella e il pretendente si fidanzano. Un’impegnativa cornice, questa, che senz’altro mostra il talento drammaturgico, oltre che registico, di Arnaud Bernard, il quale presta estrema attenzione nel conferire piena coerenza alla sua costruzione, nel rispetto del libretto – forse un filo meno della partitura. Bernard si avvale, peraltro, degli ottimi apporti dello scenografo Virgile Koering (che ricrea un interno fin-de-siècle perfetto, viscontiano), della costumista Carla Galleri, della light designer Fiammetta Baldiserri. Eppure l’operazione non si può dire del tutto riuscita, per due ragioni: la prima è che non siamo certi che sia un’operazione corretta disinnescare tutta la portata patriottica e amorosa dell’opera relegandola a una fantasia infantile. “Gugliemo Tell” era, per lo meno negli intenti di Schiller e di Rossini, un’opera seria, storica, di largo respiro e foriera di valori assoluti e grandiosi: l’adattamento giocoso e fiabesco che ne fa Bernard non si può definire certo offensivo, ma è comunque nella sostanza troppo distante dall’originale – due esempi di questa problematicità: le scene che un bambino non potrebbe capire (e quindi immaginare) suonano scollate dal contesto (l’amore di Matilde, il lutto di Arnoldo), e altre, invece, risultano quasi ridicole, come la celebre, tesissima scena della mela, nella quale Jemmy in camicia da notte viene issato sul gigantesco lampadario di cristallo sospeso. La seconda critica a questa regia è meno evidente, ma forse ancora più grave: la bellissima, ingegnosa confezione dell’opera uccide ogni possibile coinvolgimento emotivo da parte del pubblico. In platea siamo sempre e comunque spettatori, poiché viene interposto tra noi e la vicenda un narratore (il fanciullo): questo éscamotage potrebbe andar bene nel teatro di prosa, ma l’opera romantica – per non parlare più specificamente del grand opéra, cui questo melodramma tragico pertiene – vive dell’empatia che la musica punta a stimolare. La musica, in questa versione, sembra secondaria, mentre dovrebbe narrare, guidare lo spirito del pubblico tra le braccia di Matilde, contro il tiranno Gessler: dovremmo sentire sul nostro capo la mela. Invece tutta questa dimensione emozionale è abortita nel cerebrale interesse per gli stratagemmi scenici, quando non, più semplicemente, protraendosi, nella noia di un’opera già di per sé lunga, cui la regia rifiuta di conferire maggiore spessore sentimentale per abbandonarsi all’estetica fine a se stessa. La compagnia di canto, da parte sua, senz’altro va elogiata per l’impegno attoriale che tutti gli interpreti chiaramente effondono sulla scena; certamente, però, un plauso speciale va a Barbara Massaro, cui, probabilmente, non sarebbe mai passato per la testa che grazie al ruolo, non di primissimo piano, di Jemmy sarebbe potuta diventare la “burattinaia” dell’opera, sempre in scena immersa nella parte. Anche vocalmente la Massaro sa essere all’altezza del ruolo: voce ben timbrata e sciolta nelle agilità. Convincenti anche le altre due interpreti femminili: Irene Savignano (Edvige) vocalista più che corretta; Marigona Qerkezi incarna una Matilde dai toni marcatamente lirici: languida e sognante in “Selva opaca”, attenta a rendere efficacemente tutto il ruolo con una linea di canto omogenea. Al  contrario Giulio Pelligra (Arnoldo),  non sembra del tutto a suo agio con il ruolo – distante dagli usuali ruoli belcantistici che il suo timbro richiama: il suo Arnoldo è senz’altro molto partecipato sul piano emotivo, ma desta perplessità circa l’intonazione non sempre precisa e un fraseggio anonimo. Dà tuttavia buona prova di sé nel terzetto “Allor che scorre”, forse poiché molto ben supportato dagli altri cantanti. In effetti convimce il Guglielmo di Gëzim Myshketa:  nobile e morbido, accurato il fraseggio, l’esmissione omogenea. Efficace anche scenicamente,  nonostante la regia gelida, Myshketa si impegna a comunicare emotivamente. Anche Davide Giangregorio si conferma un buon Gualtiero, ben scolpito e dai colori interessanti, mentre il Rodolfo di Giacomo Leone sembra un po’ troppo vocalmente sopra le righe. Sul piano della correttezza le altre parti – Pietro Toscano (Melchtal), Luca Vianello (Leutoldo), Rocco Cavalluzzi (Gessler) – tra le quali si distingue, per il nitore della voce e la scorrevolezza della linea di canto, Nico Franchini nel ruolo del pescatore. Anche l’apporto del Coro di Opera Lombardia preparato da Massimo Fiocchi Malaspina si dimostra validissimo per coesione, espressività e coinvolgimento scenico – specie nel bel finale del terzo atto. Sulla direzione del maestro Carlo Goldstein, invece, solleviamo alcune perplessità: l’orchestra, dai suoni comunque pieni ed omogenei, viene guidata in maniera discontinua, con rubati a volte eccessivi, a volte troppo distanti dalla tradizione dell’opera; in qualche punto, inoltre, la cavea e la scena non sono in sintonia. Il pubblico del Ponchielli, comunque, sembra apprezzare la recita e fa piacere vedere finalmente tanti giovani a teatro. Speriamo che una produzione simile riesca a fidelizzarli per lo meno per il resto della bella stagione che i teatri lombardi ci prospettano. Foto Alessia Santambrogio