Staatsoper Stuttgart: “Don Carlos”

Staatsoper Stuttgart, stagione 2019 / 2020
“DON CARLOS”
Opera in cinque atti, libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, dalla tragedia di Friedrich von Schiller, Don Karlos, infant von Spanien.

Musica di  Giuseppe Verdi
Versione del 1886 in cinque atti, in francese
Philippe II  GORAN JURIC
Don Carlos  MASSIMO GIORDANO
Rodrigue  BIÖRN BÜRGER
Le Grand Inquisiteur FALK STRUCKMANN
Un moine MICHAEL NAGL
Elisabeth de Valois OLGA BUSUIOC
La Princesse Eboli  KSENIA DUDNIKOVA
Thibault CARINA SCHMIEGER
Le Comte de Lerme/Un Héraut royal CHRISTOPHER SOLOKOWSKI
Une voix d’en haut  CLAUDIA MUSCHIO
Députés flamands  SEBASTIAN BOLLACHER, HENRIK CZERNY, DANIEL KALETA, SIEGFRIED LAUKNER, STEPHAN STARCK, ULRICH WAND
Coryphée KYUNG WON YU
Orchestra, Coro ed Extrachor della Staatsoper Stuttgart
Direttore Cornelius Meister
Maestro del Coro Manuel Pujol

Regia Lotte de Beer
Scene e costumi Malgorzata Szczesniak
Luci Alex Brok
Drammaturgia Franz-Erdmann Meyer-Herder, Peter Te Nuyl
Stuttgart, 27 ottobre 2019
Il Don Carlos, oltre a essere la quarta opera verdiana basata su un testo teatrale di Friedrich Schiller, è anche la partitura su cui il compositore ha lavorato più a lungo, in quanto ne esistono cinque versioni differenti: quella in cinque atti in francese e con il balletto, eseguita alla prova generale nel 1866 all’ Opèra di Parigi; quella della prima esecuzione del 1867, che rispetto alla prima prevede alcuni tagli e modifiche; quella presentata a Napoli nel 1872, in traduzione italiana e con la riscrittura di alcuni brani; quella in quattro atti, completamente rivista e rielaborata, eseguita alla Scala nel 1884 e infine la versione in cinque atti eseguita nel 1886 a Modena senza la presenza di Verdi ma con il suo permesso, nella quale il primo atto della versione parigina è ripristinato in aggiunta alla partitura del 1884. Per questo nuovo allestimento inaugurale della stagione, la Staatsoper Stuttgart ha scelto di eseguire l’ opera nella versione di Modena ma cantata in francese: dalle lettere di Verdi con i librettisti è infatti documentato che il musicista lavorò sempre sul testo originale anche quando riscrisse la musica nelle edizioni rivedute, facendo tradurre il libretto solo dopo aver terminato la composizione. Don Carlos è un’ opera che richiede a un teatro un impegno esecutivo non indifferente. Questa lunga e complessa partitura, quattro ore di musica tra la più organica e ispirata mai scritta da Verdi, richiede la presenza di sei cantanti di primo piano per i ruoli principali oltre che di un regista e di un direttore capaci di fare racconto scenico e musicale. Sia dal punto di vista musicale che da quello scenico, la nuova produzione della Staatsoper Stuttgart soddisfava solo in parte le grandi esigenze esecutive richieste dall’ opera. L’ idea di affidare tutta l’ esecuzione a un cast formato da giovani cantanti guidati da un direttore d’ orchestra e da un regista anch’ essi in giovane età poteva essere sicuramente interessante, ma alla prova dei fatti la serata ha offerto pochissimo dal punto di vista emozionale. La messinscena della trentacinquenne regista olandese Lotte de Beer mi è sembrata confusa, irrisolta e spesso poco comprensibile nella realizzazione degli effetti scenici, oltre che complessivamente monotona. Mancava in questo allestimento soprattutto il senso del grande affresco storico immaginato da Verdi in questa partitura basata sul modello teatrale del grand-opéra, rielaborato da Verdi in maniera da conferire il massimo rilievo al contrasto fra le passioni private e i comportamenti pubblici di personaggi appartenenti a una corte regale. A questo bisogna aggiungere diverse cadute di gusto nella recitazione: tra quelle che mi sono sembrate piú gravi, citerò le mosse da Carmen di provincia esibite da Eboli durante la Canzone del Velo, il comportamento da autistico borderline di Don Carlos e tutta la prima scena del quarto atto, recitata dai cantanti in pigiama e biancheria intima come in una soap opera di quart’ ordine. Molto manchevole mi è sembrata anche l’ organizzazione delle grandi scene corali e fastidiosa la presenza continua di un gruppo di bambini che interferivano nell’ azione. Nell’ insieme, uno spettacolo scenico che io ho trovato noioso, lento e inutilmente macchinoso nell’ azione scenica oltre che monocromo nella sua eterna prevalenza di colori scuri. Anche dal punto di vista musicale l’ esecuzione presentava diverse manchevolezze. Cornelius Meister, il trentanovenne musicista nativo di Hannover alla sua seconda stagione come Generalmusikdirektor della Staatsoper Stuttgart, è un direttore che io di solito stimo molto e sulle cui interpretazioni ho espresso molte opinioni positive. Per il suo primo approccio a quest’ opera così complessa, Meister mi è sembrato mancare di maturità e personalità interpretativa. La sua direzione appariva spesso incerta, con un suono orchestrale indifferenziato e una generale mancanza di equilibrio complessivo: quasi sempre il suono proveniente dalla buca sovrastava i cantanti e li costringeva a forzare la voce. Inoltre, dal posto di platea dove sedevo io, si avvertiva una costante e fastidiosa prevalenza degli ottoni su tutte le altre sezioni orchestrali. In questa situazione, un cast composto da giovani cantanti che erano tutti al debutto nei rispettivi ruoli non poteva trovare le condizioni per esprimersi al meglio. Positiva comunque mi è sembrata la prova di Olga Busuioc, trentareenne soprano moldavo che a Stuttgart aveva offerto una interpretazione molto convincente nel Mefistofele. La voce è molto bella di timbro, luminosa nelle note alte e la cantante moldava ha amministrato in maniera tecnicamente molto saggia i passi in cui la regina spagnola canta in tessitura grave. Anche la resa scenica è sembrata nel complesso efficace e molto convincente. Il giovane baritono Björn Burger non avrebbe in teoria una voce adatta per peso e colore al repertorio verdiano, ma ha risolto la caratterizzazione vocale di Posa con molta intelligenza e consapevolezza nel fraseggio, riuscendo a offrire diverse cose interpretativamente molto pregevoli. Goran Juric, trentaseienne basso croatp che a Stuttgart ha offerto diverse esibizioni molto interessanti, non è sembrato ancora pronto per impersonare un ruolo cosí complesso e ricco di sfaccettature come quello di Filippo II nè dal punto di vista vocale nè da quello scenico. La voce suonava spesso opaca e Indietro, il legato era incerto e il fraseggio mancava di approfondimento e di sfumature. Anhe la condotta scenica appariva incerta e carente di autorità e carisma. Decisamente negativa è sembrata la prova degli altri interpreti dei ruoli principali. Il tenore italiano Massimo Giordano ha una voce sempre forzata, bassa di posizione e scurita artificialmente, che nell’ aria d’ entrata era anche problematica nell’ intonazione. Il canto suona sempre faticoso e monotono nel fraseggio, perché con una simile impostazione vocale diventa impossibile sfumare e flettere il suono. Dal punto di vista scenico, il suo personaggio era quello che pativa maggiormente gli effetti di una regia che lo ha trasformato in una specie di minorato psicologico o qualcosa di simile. Assolutamente inconsistente la Eboli del mezzosoprano Ksenia Dudnikova, sempre esagitata nel canto e sguaiata nella recitazione oltre che con diversi problemi nelle note acute mostrati nel “Don fatale”. Falk Struckmann, sessantunenne basso-baritono nativo di Heilbronn che ha svolto una carriera illustre soprattutto come interprete del repertorio wagneriano in tutti i grandi teatri internazionali, non possiede la voce di basso profondo necessaria per impersonare il Grande Inquisitore. Anche il fraseggio suonava artificioso ed estraneo alla vocalità richiesta dallo stile verdiano. Vocalmente piuttosto interessanti erano il Moine del basso-baritono viennese Michael Nagl e il Thibaut del soprano Carina Schmieger, due giovani cantanti usciti dall’ Opernstudio della Staatsoper. Il teatro era esaurito e il pubblico ha applaudito in maniera abbastanza convinta tutti gli interpreti di questa nuova produzione, indirizzando però diversi fischi e buuh al team registico. E con buone ragioni, aggiungo io. Foto Matthias Baus