Festival Donizetti Opera di Bergamo 2019: “L’ange de Nisida”

Bergamo, Cantiere del Teatro Donizetti, Festival Donizetti Opera 2019
“L’ANGE DE NISIDA”
Opera in quattro atti di Alphonse Royer e Gustave Vaëz
Musica Gaetano Donizetti
Edizione a cura di Candida Mantica
Don Fernand d’Aragon FLORIAN SEMPEY
Don Gaspar ROBERTO LORENZI
Leone de Casaldi KONU KIM
La comtesse Sylvia de Linarès LIDIA FRIDMAN
Le Moine FEDERICO BENETTI
Orchestra e Coro Donizetti Opera
Direttore Jean-Luc Tingaud
Maestro del Coro Fabio Tartari
Regia Francesco Micheli
Scene Angelo Sala
Costumi Margherita Bodoni
Luci Alessandro Andreoli
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bergamo, 21 novembre 2019
Niente tappeti, velluti o tendaggi; niente porte ai palchi o poltrone in platea; niente palcoscenico (trasformato in tribuna per il pubblico); al contrario, un’orchestra che guarda al centro della sala anziché verso il boccascena. L’effetto straniante che suscita l’ingresso al Cantiere del Teatro Donizetti di Bergamo è addolcito dalla straordinaria gentilezza con cui il personale, le maschere, gli uomini addetti alla sicurezza guidano l’incerto melomane tra cortine e barricate, corridoi non ancora stuccati e stanze di servizio prive di intonaco. L’antica casa sta per rinascere dopo una fase di importanti restauri, e già accoglie una nascita, con la prima versione scenica dell’Ange de Nisida, a 180 anni dalla sua composizione. Il Festival Donizetti Opera continua a stupire per la capacità di congiungere la vita e l’opera del compositore con le circostanze attuali della sua fortuna, le ragioni della sua vitalità e il gusto del pubblico di oggi, per di più con uno stile privo di cedimenti celebrativi o meramente documentativi. Al contrario, la filologia più attenta e la creatività più raffinata si sposano per dar vita scenica a un’opera del Donizetti maturo e parigino, mai rappresentata a causa del fallimento della committenza, quel Théâtre de la Renaissance che chiuse nel maggio 1840 a causa di una malaccorta gestione finanziaria («jettava denare da tutte le parti», come scrisse lo stesso Donizetti). Riscoprirla oggi, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di Candida Mantica sulle fonti originali, permette di ritrovare il contesto originale di motivi e disegni che Donizetti avrebbe poi reimpiegato in Don Pasquale e Maria Stuarda, ma soprattutto in Favorite, di cui L’ange sia per il libretto sia per la musica rappresenta la costante filigrana. Non è soltanto una metafora: molte pagine manoscritte dell’Ange furono usate per confezionare la partitura autografa della Favorite, come in un palinsesto medioevale in cui la scrittura inferiore lascia intravvedere un testo più antico e sconosciuto. Inoltre, in sette numeri dell’Ange si ritrovano musiche che Donizetti aveva composto per l’opera semiseria Adelaide, abbozzata già nel 1834 ma poi lasciata incompleta. Pertanto, sin dalla prima scena l’effetto sonoro è quello di un juke-box donizettiano, che anticipa titoli a venire e in forma pienamente sviluppata. Sotto lo sguardo vigilante e benevolo di un busto di Donizetti posto sul proscenio, l’Orchestra che reca il suo nome dipana una musica nuova eppure nota, che il direttore Jean-Luc Tingaud concerta molto bene, rilevando le finezze della strumentazione. La compagnia cantante, formata da un gruppo di giovani entusiasti e ottimamente preparati, si confronta con due tipi di difficoltà: la qualità dell’opera, che abbonda in richieste virtuosistiche, e l’assenza di tradizione (giacché esiste soltanto una versione discografica della prima esecuzione assoluta, in forma di concerto, avvenuta alla Royal Opera House di Londra nel luglio 2018). Lidia Fridman incarna assai bene il carattere della protagonista, umile e dimessa, per certi aspetti priva di dignità (ancora molto lontana dalla Leonor de Guzmán che ispirerà Favorite). Il timbro piuttosto scuro si adatta alla tessitura, con una linea di canto pregevole nel registro centrale; sebbene il soprano non riesca sempre a rifinire il fraseggio e a volte manchi di espressività, si disimpegna in modo soddisfacente nella grande aria solistica del III atto, «Frais ombrage! Ile embaumée», sfogo di tutta l’umiliazione che è costretta a subire. Konu Kim è Leone, il giovane innamorato di Sylvia e trasformato nello zimbello della corte (come il Fernando della Favorita): volume e fiati poderosi bilanciano la scarsità di armonici, anche se un fraseggio e un porgere eccessivamente drammatici non sembrano la scelta più pertinente. Kim, in effetti, tende ad esagerare nell’emissione forte, forse per timore che la voce si disperda o semplicemente per dimostrare le proprie capacità. Azzarda puntature, a voce piena o mezza, nell’aria finale del IV atto (ma la musica non è quella di «Spirto gentil»: è un’aria con corni obbligati dal carattere meno sognante). Molto corretto il baritono Florian Sempey nella parte del re d’Aragona. Ben proiettata, anche se non sempre appoggiata con la necessaria fermezza, la voce del basso Roberto Lorenzi nel ruolo semiserio di Don Gaspar: a lui competono la scena corale dell’apertura (che mescola le funzioni di «Largo al factotum» con qualche citazione da Don Magnifico e soprattutto preannuncia Don Pasquale) e parecchi interventi giocati sulla grettezza e anche sul grandguignol (come nelle scene II viii, in cui propone a Sylvia di sposare Leone per togliere d’impaccio il re, o in III i, in cui dice al re che vorrebbe annullare tutto). Non sempre controllata l’intonazione del basso Federico Benetti nel ruolo del monaco (il personaggio che diventerà Baldassarre). Magnifico il lavoro svolto dal Coro Donizetti Opera preparato da Fabio Tartari. Lo spettacolo firmato da Francesco Micheli, direttore artistico del festival, è al tempo stesso semplice ed elaborato, in ogni caso molto felice in tutte le sue soluzioni. L’utilizzo dell’intera platea del teatro, sgombra dalle poltrone, offre all’azione un respiro di plein aire che si giova della recitazione, della videoproiezione e delle luci quali uniche forme di costruzione; non vi è altro elemento scenografico, perché l’eccezionale spazio è più che sufficiente. Nella prima parte (corrispondente ai primi due atti) il coro interviene dall’alto del loggione, lanciando le pagine manoscritte della partitura che si credeva perduta, mentre nella seconda parte scende in platea e gioca ancora un ruolo fondamentale. Anche il pavimento è tutto cosparso di fogli di composizione dell’Ange, che gli interpreti raccolgono e ripassano, come per rimarcare la trasformazione (finalmente!) della musica da testo scritto ad arte rappresentata e viva. Il pubblico apprezza moltissimo l’originale progettualità e la sfida di sperimentazione che caratterizza tutta la produzione. Micheli esalta la connotazione geografica del libretto, ossia l’isola di Nisida quale luogo dei primi tre atti, nell’accezione di spazio da cui è impossibile fuggire per Sylvia, lì relegata quale oggetto di piacere del re. Quello della corte aragonese di Ferdinando I è uno splendore apparente, incapace di mascherare l’ipocrisia e il cinismo; ecco perché i costumi più sfarzosi (a firma di Margherita Baldoni) sono di carta, pronti a essere stracciati nei momenti di ribellione e denuncia della verità. Del resto, l’atteggiamento che Micheli più rimarca è il sadismo nei confronti di Sylvia e Leone: quattro sgherri del sovrano hanno la funzione di provocarli, schernirli e oltraggiarli, esasperandone la resistenza e trasformandoli in martiri. È una soluzione decisamente condivisibile, perché fa risaltare l’ambientazione unitaria e opprimente dell’Ange, differenziandola da quella molto più articolata, ariosa ed elegante di Favorite. Se il dolore prevale fin dall’inizio, alla fine dell’opera l’ange della bellezza muore ed è contornata da due ampie ali, già trasformata in angelo del paradiso.   Foto Gianfranco Rota © Festival Donizetti Opera