Teatro Comunale di Modena: “Rigoletto”

Modena, Teatro Comunale Luciano Pavarotti, Stagione d’Opera 2019/2020
RIGOLETTO”
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave ispirato al dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova MARCO CIAPONI
Rigoletto DEVID CECCONI
Gilda DANIELA CAPPIELLO
Sparafucile RAMAZ CHIKVILADZE
Maddalena ANTONELLA COLAIANNI
Giovanna BARBARA CHIRIACO’
Il Conte di Monterone FELLIPE OLIVEIRA
Marullo ROMANO FRANCI
Matteo Borsa ROBERTO CARLI
Il Conte di Ceprano STEFANO CESCATTI
la Contessa di Ceprano MARIA KOMAROVA
Un usciere di corte PAOLO MARCHINI
Un paggio della Duchessa MATILDE LAZZARONI
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro Lirico di Modena
Direttore David Crescenzi
Maestro del Coro Stefano Colò
Regia
Fabio Sparvoli
Scene Giorgio Ricchelli
Costumi Alessio Rosati
Luci Vinicio Cheli
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena con Fondazione Teatro Comunale di Ferrara e Azienda Teatro del Giglio
Modena, 29 novembre 2019
Terzo titolo della stagione lirica modenese, Rigoletto è anche la seconda nuova produzione ispirata ai debutti storici di big Luciano, dopo La Bohème: il Duca di Mantova tornò più volte nella carriera del tenorissimo a distanza di decadi, contraddistinguendosi per la sfacciata bellezza e solarità del timbro e per la generale facilità del canto; caratteristiche che rendevano genuino, sincero e credibile il suo umile Rodolfo pucciniano e che, mutatis mutandis, resero fresco, frizzante e volgarmente spavaldo senza esagerare mai il suo Duca verdiano. Il nuovo allestimento è stato affidato a Fabio Sparvoli, che con le scene di Giorgio Ricchelli e i costumi di Alessio Rosati ha fatto probabilmente il possibile con un budget limitato: lo spettacolo proposto ha una sua cifra non brutta né inefficace, ma purtroppo non si può dirne nemmeno il contrario, tanti sono gli stili che vi convivono stridendo l’un con l’altro. Le scene infatti rappresentano un salone con fregio vagamente gonzachesco che lascia spazio ad una fuga à la De Chirico nel secondo atto, una gabbia-casa per Rigoletto, un albero ischeletrito e delle panche per la taverna prossima al Mincio: nessuna di queste è brutta, anzi, ma nel complesso sembrano ambienti talmente stilizzati e tra loro linguisticamente diversi che parrebbero provenire rispettivamente da Rake’s progress, West Side Story, Nozze di Figaro e Evgenij Onegin e potrebbero esservi riciclate senza traumi (menzione speciale alle luci molto efficaci di Vinicio Cheli). A parte le mise moderne di Gilda, i pur stilizzati costumi offrivano una rilettura interessante del ‘500 in chiave bianco/nero e con spacchi sexy che si possono ricondurre alla lascivia della corte o alla professione di Maddalena (più inspiegabile è invece il minaccioso pelliccione di Sparafucile, sbucato da Game of thrones e, complice la vocalità del basso, più siberiano che mantovano o borgognone). Già visivamente insomma, questo spettacolo pur godibile tentava, senza trovarla, una via di mezzo tra la tradizione e la drammaturgia più profonda, con idee accarezzate e non approfondite (cosa poteva essere la casa-gabbia per Gilda-usignolo, cosa si poteva fare del rapporto padre-figlia, cosa del personaggio ambiguo di Giovanna…) il tutto allentando il tiro (parrebbe, almeno dalla seconda recita del 29 novembre) ai cantanti per la direzione scenica. La maggioranza di loro esegue senza troppa convinzione alcune semplici disposizioni non del tutto chiare o motivate (dal gettare una sedia a terra al percorrere un tragitto intorno a casa); più di tutti il protagonista, corso a sostituire un collega indisposto (quindi parzialmente giustificato), ha interpretato la parte del baritono che guarda il maestro e lancia acuti (buoni, per carità) senza preoccuparsi troppo di chi o cosa vi sia intorno a lui. Lo spettacolo modenese regge grazie ad una compagnia pregevole: il Coro lirico locale diretto da Stefano Colò si comporta in maniera eccellente, mentre sono buoni o molto buoni tutti i comprimari (che spesso provengono dal coro stesso), con una punta di rilievo nel puntuto e arguto Borsa di Roberto Carli e una davvero perfettibile nel Monterone di Fellipe Oliveira, che per fortuna alla seconda efficace sortita fa dimenticare la prima. Corretta e scenicamente disinvolta la Maddalena di Antonella Colaianni, che nell’ensemble della tempesta soccombe un po’ ai volumi orchestrali. Lo Sparafucile di Ramaz Chikviladze, nonostante la considerevole potenza, pecca proprio nella corona sul fa grave del suo esordio e in generale “slaveggia”: forse proprio per questa caratteristica non lieve, riesce emblematico nella parte, riuscendo a caricarsi sulla schiena il sacco contenente Gilda. La quale era Daniela Cappiello, anch’ella di volume non imponente e qua e là di emissione ancora cauta, ma efficacissima per voce (con una luce perlacea vagamente malinconica) e figura: alla vocalità corretta nei centri e nell’estrema tessitura acuta, ha affiancato una non comune partecipazione d’interprete e, con il collega Marco Ciaponi, ha realizzato nel duetto dell’atto primo un piccolo capolavoro di raro ascolto (cadenze comprese). Il giovane tenore appunto riusciva benissimo dove altri più celebri colleghi si strangolano, azzardando addirittura la puntatura del Possente amor, e in generale riesce correttissimo e ben cantato, forse troppo: Ciaponi non è (ancora) un Duca nello spirito, di cui con il giusto tempo conseguirà non tanto la sicurezza quanto il cinismo. Devid Cecconi sostituiva il previsto Caria: dopo una partenza comprensibilmente guardinga, ha sfoderato fiati invidiabili in una prova in crescendo, con acuti “grossi così” che hanno mandato il pubblico in visibilio fino al bis della Vendetta: registrato il pregio di non zoppicare né di dissimulare la gobba, nonché il picco di un Cortigiani da manuale, per lui ci si augura una maturazione del personaggio, al momento tutto risolto nella vocalità. La massima sorpresa di questo Rigoletto era però nascosta ai più: nel golfo mistico scendeva David Crescenzi, che conosceva a memoria la partitura ma, come e più dei grandi maestri, anche tutti i trucchi del mestiere per sostenere il canto, tenere insieme gli elementi in gioco (e la concertazione di quest’opera, con cori e orchestrali fuori scena, non è cosa facile) e senza perdere mai la tensione narrativa. Esempi: l’introduzione della canzone del tenore è pesante, sguaiata, con gli ottoni a marcare la ritmica, ed è giusto che sia così, all’osteria ad ordinare una donna e del vino; nei pezzi d’assieme nessuna sbavatura (miracoloso). Con tempi generalmente spediti, elastici ma coerenti e attenti alle voci, Crescenzi ha guidato l’Orchestra Filarmonica Italiana in una prova di superba efficacia, risolta non tanto nel suono “bello in sè” ma in una tenuta splendida dell’insieme e con un senso del teatro che, credo, Verdi stesso avrebbe apprezzato. Il Bepìn anche stavolta è emerso titanico e universale proprio attraverso la ruvida crudezza dei suoi personaggi e del loro umanissimo dramma.

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