Teatro Sociale di Como: “L’heure espagnole” & “Gianni Schicchi”

SPETTACOLI BRESCIA TEATRO GRANDE GIANNI SCHICCHI NELLA FOTO SCENA 27/09/2019 NEWREPORTER FAVRETTO

Como, Teatro Sociale – Stagione d’Opera 2019-20
L’HEURE ESPAGNOLE
Commedia musicale per cinque voci soliste e orchestra di Franc-Nohain.
Musica di Maurice Ravel
Concepcion ANTOINETTE DENNEFELD
Gonzalve DIDIER PIERI
Ramiro VALDIS JANSONS
Don Iñigo Gomez ANDREA CONCETTI
Torquemada JEAN-FRANÇOIS NOVELLI
GIANNI SCHICCHI”
Opera comica in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano
Musica di Giacomo Puccini
Gianni Schicchi SERGIO VITALE
Lauretta LAVINIA BINI
Zita AGOSTINA SMIMMERO
Rinuccio PIETRO ADAINI
Gherardo DIDIER PIERI
Nella MARTA CALCATERRA
Gherardino SAVVA BURLACU
Betto ANDREA CONCETTI
Simone MARIO LUPERI
Marco VALDIS JANSONS
Ciesca CECILIA BERNINI
Maestro Spinelloccio/ Ser Amantio NICOLÒ CERIANI
Pinellino ZABULON SALVI
Guccio MARCO TOMASONI
Orchestra
I Pomeriggi Musicali
Direttore 
Sergio Alapont
Regia Carmelo Rifici
Scene Guido Buganza
Costumi Margherita Baldoni
Luci Valerio Tiberi
Nuovo allestimento dei Teatri OperaLombardia
Como, 12 gennaio 2020
Della produzione che chiude la stagione d’opera del Sociale di Como rimangono soprattutto impresse alcune voci, segno che l’attenzione che il teatro rivolge sempre alla formazione e alla valorizzazione musicale raggiunge i suoi scopi. La prima è del mezzosoprano francese Antoinette Dennefeld: una Concepcion energica da un lato e tutta accurata nel fraseggio dall’altro, la cui languida avvenenza sembra riverberarsi anche nel timbro caldo e pastoso.È senz’altro lei la vera protagonista della serata – anche se appare in uno solo degli atti unici presentati: la Dennefeld sa mantenere il suo personaggio sempre sul filo dell’ambiguità tra carnalità ed evanescenza, gioco e desiderio, conferendo umanità a una regia gelida, quasi asettica, e a una partitura contraddistinta da quel misurato, artificiale distacco col quale Ravel era solito firmarsi (celebre la sua boutade “Perché nessuno capisce che io sono artificiale per natura?”). Attorno a lei spiccano Jean-François Novelli, un Torquemada buffo con una nota di inquietante automazione nei gesti e nella voce, e il baritono lettone Valdis Jansons (Ramiro), che accosta a una solida e consapevole presenza scenica, una vocalità  sonora, omogena ed espressiva (è un peccato vederlo, in “Gianni Schicchi”, relegato al ruolo di Marco, che certamente non può dirsi memorabile). Didier Pieri, un Gonzalve senz’altro accattivante nella sua presenza scenica, ma dalla linea di canto non sempre ben a fuoco. Nei panni di Gherardo, convince maggiormente  (probabilmente anche grazie alla regia più naturalista), e dà un apporto prezioso al grande insieme dell’atto pucciniano. Andrea Concetti, si mette ben in luce sia come Gomez che come Betto, grazie anche a una naturale vis comica: vocalmente parlando, fornisce due buone interpretazioni, entrambe contraddistinte da bei centri sonori e da un accurato controllo del canto. Il cast di “Gianni Schicchi” è, come risaputo, ipertrofico, e tutta la potenza dell’opera punta proprio sulla tentacolare, mostruosa famiglia dei Donati, che supplisce la calcolata assenza del coro. In questa piccola moltitudine, certo svetta Sergio Vitale nel ruolo del protagonista: voce fresca che pare nata per i ruoli brillanti,  tonda e piena, Vitale ci restituisce uno Schicchi semplicemente impeccabile, dagli acuti fermi, la linea di canto pulita, anche nei momenti in cui imita Buoso, la personalità scenica straripante – tanto che la sua entrata può benissimo porsi come termine ante/post quem, giacché rivivifica una coralità parzialmente manchevole sia di ritmo che di coesione. Accanto a lui solo altri emergono Agostina Smimmero, una fra le Zite più complete vocalmente che ci sia capitato di ascoltare, soprattutto nella zona medio-grave, oltre che costantemente impegnata nella resa comica della vicenda, e Pietro Adaini, tenore dal porgere sicuro e grazioso, ma anche spavaldo e sicuro nella gestione del registro acuto, ben intonato. Corretto il resto del cast, anche se sono pienamente riconoscibili per lo meno le belle interpretazioni di Marta Calcaterra (una Nella ben costruita nel fraseggio e nella dizione) e Mario Luperi (giustamente autorevole e dai volumi controllati nella parte di Simone). Pure la Lauretta di Lavinia Bini ci suona un po’ spenta, ben cantata, ma senza particolari guizzi. La direzione del Maestro Sergio Alapont è, dal canto suo, torrenziale, senza perdere però l’afflato sognante necessario alla resa di alcuni momenti: ci è parso, in ogni caso, stepitoso su Ravel, pienamente rispettoso di una partitura puntuale e un po’ meccanica (come gli orologi di Torquemada), ma che non manca certo di slanci di pienezza orchestrale; su Puccini, invece, la vera sfida è stata tenere a bada un’orchestra che in qualche caso non è stata gentile con la scena: l’abilità di Alapont ha comunque saputo evitare qualsivoglia discrasia, e ha confezionato un prodotto fruibilissimo e musicalmente corretto. Il team creativo, invece, solleva alcune perplessità, ma che, sia chiaro, non impediscono di godere dello spettacolo proposto. Il primo di questi dubbi sta proprio a monte del progetto: Ravel e Puccini, infatti, non sembrano dialogare veramente, specie in queste due operine, entrambe leggere, ma di due comicità diverse – codificata, quasi stereotipata galanteria la prima, sapida ironia borghese la seconda; l’eccentricità dell’accostamento impedisce, infatti, anche alla regia di partorire un’idea unitaria, che leghi i due atti: per carità, nulla di male, non è certo obbligatorio creare un’unica drammaturgia, che talvolta si rivela un ibrido di dubbio gusto, ma la scelta che fa Carmelo Rifici qui è fin troppo straniante: un atto quasi espressionista, infarcito di antinaturalismo, con personaggi meccanici, semiautomatici (imbragati nei costumi di pregevole ideazione e fattura di Margherita Baldoni), in un’atmosfera spoglia e rarefatta che rimanda a Lang e Murnau (realizzata senza troppi sforzi da Guido Buganza); l’altro, invece, pare uscito da Monicelli, coi parenti serpenti in bella mostra nella loro goffaggine e micragnosità, ma in una distesa atmosfera da commedia natalizia. I riferimenti cinematografici si sprecano anche nell’ambientazione (deboluccia e non coerente, in realtà) dello “Schicchi” nella hall di un cinema, con tanto di proiezioni evocative di comicità d’antan o di una Firenze sognante che si sovrappone al volto di Lauretta – un po’ à la Resnais. Se “L’heure éspagnole” sembra dialogare con l’idea di regia, non è così per “Gianni Schicchi”, la cui vera forza rimangono comunque le dinamiche interne al libretto – che ancora strappano risate al torpido pubblico della domenica comasca – e le invenzioni di regia appaiono posticce, superflue. Il teatro, lungi dall’essere pieno, sa essere tuttavia molto generoso di applausi, alcuni anche a scena aperta per Bini e Adaini, sugellando così, con un altro successo, la brillante stagione lariana. Foto Umberto Favretto