Intervista al baritono Simone Piazzola

Incontriamo  baritono veronese Simone Piazzola, in questi giorni impegnato nelle prove de “La bohème” di Puccini al Teatro alla Scala di Milano. Gentilmente ci ha concesso questa breve intervista.
Simone, sei nato nel 1985, l’anno europeo della musica. Ti consideri un predestinato?
Non mi sono mai considerato un predestinato, in realtà non ci ho mai pensato. Ho solo sempre desiderato cantare sopra ogni cosa e ho avuto la fortuna di aver avuto qualcuno che ha creduto tanto in me e mi ha sempre supportato in tutti i sacrifici che si son posti sul cammino. Diciamo che il mio presente me lo sono guadagnato e sudato, mi auguro di essere destinato a un futuro sempre più ricco di musica!
Hai un ricordo particolare? Quando è entrata la musica nella tua vita?
Io già a 3 anni ero innamorato della voce di Mario del Monaco, l’unica voce in grado di calmare il bambino agitato e irrequieto che ero. A 8 anni mi appassionai profondamente alle opere di Giuseppe Verdi e a 11 anni iniziai a studiare canto.Un ricordo particolare fu l’incontro con la mia maestra. Avevo 8 anni ed ero in montagna con mia madre a fare un picnic e dissi ad alta voce “dalla scala di casa mia il grande Simone Piazzola!” e cominciai a cantare. Quella che diventò la mia maestra era per pura coincidenza lì, il soprano Alda Borelli Morgan, mi sentì in quell’occasione e disse a mia madre di portarmi da lei in futuro per apprendere la tecnica del canto. Posso dire che tutto ebbe inizio da lì.
Tu sei veronese, particolare non trascurabile dato che la città scaligera è sede di uno dei maggiori festival lirici estivi. C’eri anche tu alla serata inaugurale dell’edizione 2020 chiamata “Il cuore italiano della musica” nella quale, insieme ai tuoi colleghi, hai dato una forte testimonianza della volontà di ripresa dopo i difficili mesi della pandemia. Cosa hai provato nel vedere l’Arena con un pubblico decimato?
È stato un colpo al cuore. Quando si è abituati all’Arena colma di spettatori è destabilizzante entrare e vedere tutto quello spazio vuoto. Poi quando arriva il momento di cantare ogni pensiero si spegne e si entra in un’altra dimensione e, a prescindere dalla quantità di persone che ascoltano, si cerca di arrivare ad ogni animo, ad ogni spirito appassionato e smuovere qualcosa nel loro profondo. Come tutti auspico per una rapida ripresa e che il pubblico torni a riempire i teatri con ancora più ardore di prima.
Al di fuori delle recite c’è un momento particolare della giornata in cui ti piace cantare?
Come quasi tutti quelli che amano cantare, quando sono a casa canto nel mio piccolo teatro personale…. La doccia!

Stai preparando un nuovo debutto?
Avrò l’occasione di un nuovo debutto l’anno prossimo al Teatro Municipale di Piacenza con “La Favorita” di Gaetano Donizetti, questa volta nella versione in italiano diretta dal Maestro Beltrami.
Se non avessi fatto il cantante cosa ti sarebbe piaciuto fare?
Da piccolo ho sempre pensato “se non divento un cantante faccio il camionista”. Ho sempre avuto interesse per i motori; probabilmente se non fossi un cantante ora comprerei macchine vecchie da sistemare e personalizzare per poi rivenderle!
Come artista lirico tu vivi ed incarni i personaggi; in particolare quelli verdiani perché il maestro di Busseto aveva una straordinaria capacità di scolpirli e dare loro vita. Anche il pubblico melomane vive di emozioni. Ricordi un complimento che ti ha particolarmente gratificato?
Ricordo con emozione, dopo aver cantato Ernani al Teatro alla Scala di Milano, una signora che si avvicinò a me piangendo dicendomi che erano anni che non si commuoveva come quella sera. Saper di aver toccato così nel profondo qualcuno col mio canto mi ha gratificato non poco, sono quelle cose che ti fanno capire che stai percorrendo la strada giusta.
Una domanda provocatoria: cosa pensi dei critici musicali?
Un critico in sé ha l’arduo incarico di dare una valutazione imparziale sull’esecuzione. Ho molta stima per coloro che fanno critiche costruttive senza stroncare, distruggere un cantante. Può capitare la serata in cui si rende meno del solito, siamo ahimè lo strumento più delicato in assoluto.
Prima di entrare in scena i cantanti, notoriamente, compiono riti scaramantici: dai colpetti di tosse al “MIAEU” passando per gli intramontabili “Dammi la mela, Pippo …” oppure “Ampelio!” per cercare i suoni in maschera. Qual è il tuo?
Prima di entrare in scena faccio sempre tre segni della croce e chiedo a mia mamma di vegliare su di me. Vocalmente parlando dico sempre “mai più” per testare il falsetto e “ohi meee” per testare le gravi… Anche se in realtà sono più abitudini quotidiane che prove tecniche!

Altra domanda provocatoria: cosa pensi dei maestri di canto?
Ho notato che passa molto il messaggio del “so cantare, allora so anche insegnare”. Pochi insegnano la vera tecnica del canto e il rischio è che lo studente si ritrovi a far fatica, a non sviluppare appieno le proprie potenzialità e a mettere a repentaglio la propria salute vocale. Questo soprattutto per coloro che iniziano, che non sanno riconoscere il valido maestro da quello che non lo è.
In quale teatro, o sala da concerto, hai trovato le migliori condizioni acustiche?
Ci sono dei teatri che hanno veramente delle acustiche bellissime e favorevoli alla voce. Mi viene da citare  La Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, il Regio di Parma e il Massimo Bellini di Catania. Sono teatri in cui ho cantato proprio con piacere.
Il pubblico più caloroso che hai incontrato?
Non ne ricordo uno più caloroso di un altro, ho avuto la fortuna di trovare un pubblico meraviglioso ad ogni recita. Ho amato allo stesso modo ogni applauso, ogni apprezzamento, ogni ascoltatore. Tutti mi hanno scaldato il cuore.
Ultima domanda provocatoria: cosa rispondi a chi ti chiede qual è il tuo mestiere “vero”?
Penso non ci sia da rispondere ad una domanda del genere. Chiunque la ponesse ignora una delle cose più importanti di questo lavoro: il sacrificio. Lontano dagli affetti, dalla propria compagna, dalla propria famiglia. Sentire la solitudine, la fatica di spostarsi continuamente da un luogo all’altro come se fossimo senza fissa dimora. Si resiste perché la passione per il canto è immensa, viscerale. Ma tanto si guadagna, tanto si mette da parte. Ci mangio col mio lavoro, ho una casa, una macchina, pago quello che serve. Non sanno nemmeno loro a questo punto cosa sia un lavoro “vero”!