Flaviano Labò (Borgonovo Val Tidone, 1º febbraio 1927 –Melegnano, 13 febbraio 1991)
Deve a un maresciallo dell’esercito in pensione e a un rappresentante di formaggi se oggi canta al Metropolitan. “Se non mi avessero aiutato loro”, ammettere Flaviano Labò, “adesso sarai ancora lì sulla linea Milano-Domodossola a fare il ferroviere”.
L’ho incontrato all’Auditorium della RAI al Foro Italico di Roma durante la registrazione di “Un ballo in maschera”. Da principio si rifiutava di credere che un rotocalco si occupasse della sua figura, che un fotografo fosse lì apposta per lui: “Mi vergogno”, confessa, “quando mi vedo sui giornali”. Umile, modesto, niente affatto presuntuoso, gli pare un sogno la carriera fatta in così breve tempo. La sua è una storia come se ne ripetono da anni nella musicalissima Emilia, lì dove si contano a migliaia i fanatici della lirica e da dove sono usciti i più geniali maestri dell’opera: da Verdi a Toscanini. Nato a Castel San Giovanni nella campagna piacentina 42 anni fa, Labò è figlio di un operaio.
“Mio padre”, dice il tenore, “canta meravigliosamente. E ho cinque sorelle, tutte intenditrici di Verdi, Puccini e Mascagni; una zia contralto è uno zio tenore, che, se avessero studiato, sarebbero oggi delle celebrità… Mentre la mia “, aggiunge con franchezza Flaviano Labò,” e la voce più brutta della famiglia. E mio padre ne è tuttora convinto. Non vuole rendersi conto della strada che ho fatto da quando intonavo l’Ave Maria di Gounod in parrocchia fino ai recenti successi alla Scala e al Metropolitan. Non si convince che io possa calcare le scene di così famosi templi dell’arte. Per lui resta un mistero che un Mitropoulos, un De Sabata, un Karajan è un Gavazzeni si siano invaghiti della mia voce. Ho insomma un padre ipercritico, capace di farmi raccomandazioni prima di una recita, magari a fianco della Caballé; e si è categoricamente rifiutato di assistere alle mie interpretazioni per il timore di sentirmi uscirà in qualche stecca “.
Sua madre, una tranquilla casalinga romagnola, è in genere più ottimista. Appena può, raggiunge il figlio nei vari teatri e non perde una recita: dalla prima all’ultima, lei si piazza in prima fila, in adorazione del suo Flaviano. “Chissà se durerà”, dice però amaramente il cantante, “ho paura che un giorno o l’altro sarò costretto a smettere e tornerò a fare l’aiuto macchinista”. Parla con nostalgia della macchina a vapore e di quando l’ha tradita a 22 anni per il melodramma, Solo perché il maresciallo Piero Pisani, amico del direttore d’orchestra Antonino Votto, l’aveva invitato alla Scala per farsi sentire del celebre maestro. La, tremando dalla paura, riuscì comunque a intonare ad orecchio “Non piangere, Liu”. Votto vinto dalla bellezza, dalla rotondità, dalla freschezza della voce del tenore, non credeva ai propri occhi orecchi. Volle chiamare Antonio Ghiringhelli e de Victor De Sabata che sentissero pure loro “questo contadino della voce patrizia”. “Da domani”, gli impose Votto, “tu studierai qui con noi punto, avrai una borsa di studio e prenderai lezioni di canto del maestro Ettore Campogalliani di Mantova. Lui, il ferroviere dalle mani abbruttite dal carbone, dal viso provato dalle fatiche, si abituò pian piano ad altri ritmi di lavoro, ad altri ambienti, alle scene, ai costumi, ai vocalizzi, al delicato fraseggio, al respiro controllato: mattina e sera passate a solfeggiare, a limare le corde vocali e a tentare perfino di cavar qualche scala o qualche sonatina di Clementi del pianoforte. “Ma “, ricorda, “sia da Campogalliani, e in seguito il conservatorio di Parma, non imparai quello che mi insegnava invece direttamente la vita della Scala. Mi sentivo in gola un tesoro, ma temevo di non farcela. Ancora adesso so di non essere al vertice delle mie segrete ambizioni e prego Dio di darmi la voce di Gigli e Il temperamento di Pertile. Ma ho anche un grande una gran paura di bruciare troppo in fretta la tappa della carriera o di perdere un giorno la voce… Nello stesso tempo mi preoccupo di finire in bellezza “.
Sono già 14 anni che canta. Infatti il suo esordio al Municipale di Piacenza è del dicembre del 1955: una Tosca organizzata apposta per lui fresco di allenamenti scaligeri, dai suoi “più fedeli ammiratori d’osteria” (sono parole sue), capeggiati da Guido Carrà rappresentante di formaggi, il quale giurava come se si fosse trattato di un gorgonzola, che le qualità di Labò erano “uniche, indiscutibili”. Il tenore cantò in quell’occasione a fianco del baritono Piero Campolonghi, “al quale”, confida ora,” devo molto del mio stile vocale: mi aiutato e consigliato come un fratello “. quella recita fu un trionfo. Labò passo poi a Bergamo per una Turandot.
Nell’intervallo tra secondo il terzo atto fu assalito nel camerino dalle ammiratrici che volevano l’autografo. Perse la nozione del tempo e venne chiamato in scena quando meno se l’aspettava, discinto, spettinato, senza costume. Così ridicolmente conciato, non si perdette d’animo e intonò un “Nessun Dorma!” che fece decidere a Rudolf Bing, manager del Metropolitan, casualmente a Bergamo quella sera, di scritturalo immediatamente. Da quel giorno Labò non ha conosciuto soste. Un continuo peregrinare da un teatro all’altro dell’America e dell’Europa. Preso nel pieno, entusiasmante vortice della lirica, e nonostante che siano passati alcuni anni, Flaviano Labò non s’è ancora ripreso dallo stupore. Il miracolo l’hanno fatto le sue corde vocali: “Non potevo immaginare di diventare un giorno cantante professionista. Sono in fin dei conti un povero ignorante. Non sopporterei comunque qualcuno mi desse del gigione, o peggio ancora che mi dicesse alle spalle: “Ma quello lì è una testa di tenore!” “. Generalmente molti ci giudicano incolti e non sempre hanno torto di metterci intellettualmente al livello dei calciatori. Ciò mi dispiace e mi tormenta, perché in tal modo quei criticoni toccano, se pure indirettamente, i miei idoli: Verdi e Puccini, che hanno invece bisogno delle nostre corde vocali usate con intelligenza, con intuito poetico, rifuggendo dagli atletismi e dalle bizzarre pretese di certi interpreti “.
“Quando penso”, prosegue, “che fino a 22 anni non ho studiato musica e non sapevo che cosa fosse Il pentagramma, mi dispiace. Adesso, se avessi cominciato da piccolo, potrei affrontare un repertorio assai più vasto, Mozart e Wagner, forse, non sarebbero tabù per le mie capacità teatrali. E a 25 anni stavo lì lì per abbandonare tutto, dopo il famoso addio di Toscanini alla Scala. La sua lezione in quella occasione fu tale che mi fece dubitare di me stesso. Quel mondo ricreato da Toscanini nella sinfonia dei Vespri Siciliani mi pareva irraggiungibile e non ho fatto per me che mi sentivo così piccolo di fronte al direttore, così meschino di fronte agli spartiti verdiani. Quel concerto era stato per me uno shock. Pensavo che mai avrei potuto interpretare le pagine di Verdi. Avevo comunque avuto una grossa lezione: fra tutti gli operisti, Verdi lo sentii un po’ alla volta sempre più mio, al punto che oggi canto quasi esclusivamente le sue opere: Don Carlos, Un ballo in maschera, Aida, La forza del destino sono le mie preferite. Sono un verdiano tale da non poter concepire di tradire il Bussetano, un domani, con il suo più temibile avversario Wagner e nemmeno con Rossini, con Mozart, con Bellini e tanto meno con i moderni e con i contemporanei. La mia vita l’ho sacrificata lui, anche se ad essere sincero devo dire che per il brivido ho bisogno di Puccini “. È molto strano infine che in qualsiasi recita, e nonostante che stia per dar vita ai suoi personaggi più cari, Labò abbia paura del pubblico. Si fa venire talvolta perfino la febbre. Ma si tratta per fortuna di una febbre che l’aiuta a cantare col cuore: è un timore che rende più ma ne, più vive le creature verdiane. Queste, in fondo, sono rimaste quelle che lui, per istinto, avevo già capito e canticchiato quando conduceva la macchina a vapore verso Domodossola. (Luigi Fait: “Dalla locomotiva al Metropolitan”, Roma, 1969)