Gioachino Rossini (1792-1868): “Ciro in Babilonia” (1812)

Dramma con cori in due atti su libretto di Francesco Aventi, liberamente tratti dal “Libro di Daniele” e dalle Sacre Scritture.
Prima rappresentazione: Ferrara, Teatro Comunale, 14 marzo 1812.
Primi interpreti:
Eliodoro Bianchi (Baldassare)
Maria Marcolini (Ciro)
Elisabetta Manfredini Guarmanni (Amira)
Anna Savinelli (Argene)
Giovanni Layner (Zambri)
Francesco Savinelli (Arbace)
Giovanni Fraschi (Daniello).
La seconda opera seria scritta da Rossini è un “dramma con cori “, sopra un mediocre testo del Conte Francesco Aventi, “da rappresentarsi nel teatro comunale di Ferrara la Quaresima dell’anno 1812″, come si legge nel libretto. L’opera, definita altrove “oratorio”, è Ciro in Babilonia ossia la caduta di Baldassarre. Fu rappresentata sulla scena o fu soltanto eseguita “all’italiana”, come avveniva talvolta  durante le stagioni di Quaresima? Dalle cronache del tempo non si può ricavarlo, dato che raramente o mai esse parlano della messa in scena. “Fu uno dei miei fiaschi (raccontò più tardi lo stesso Rossini), fu però un primo tentativo di opera spettacolare, che richiedeva una dispendiosa messa in scena (e forse per questo la si diede in forma di oratorio). (…)
Rossini era allora immerso nell’ esperienza dell’opera buffa: nello stesso 1812, oltre a questo Ciro, compone a rotta di collo ben quattro opere, tutte comiche (tra cui La pietra del paragone). Si può immaginare in quale condizione dovesse lavorare e come potesse essere disposto a pensare ad un soggetto storico così grave e macchinoso. Tuttavia in questa partitura Rossini si pone immediatamente le più ardite soluzioni di un nuovo teatro drammatico, se non altro per l’ampio sviluppo conferito ai pezzi di insieme, gli abbondanti recitativi strumentali e per la precisa accentuazione degli effetti scenico-musicali. Il temporale è brevissimo, ma efficace con il suo folgorante crescendo. La “sinfonia” non fu scritta: vi fu appiccicata  quella dell’Inganno felice.
L’atto primo è carico di barocchismi vocali e risulta più  affrettato del secondo. Tuttavia l’aria di Amira con coro “Vorrei vederlo sposo”, con un espressivo introduzione di violoncello solo, è notevole.
Anche la scena che descrive Ciro in prigione e ricca di spunti  ritmo- melodici che verranno maturati nelle successive opere drammatiche. Il senso del teatro si rivela già ad un elevato grado di mestiere come l’ingresso di Daniele collerico e minaccioso. L’ultimo quadro e forse il migliore di tutta l’opera: Ciro e Amira stanno per essere immolati al Dio: un recitativo, “Oh delle mie pene”, ha accenti profondamente espressivi, e si lega mediante un calcolato effetto di attesa e di sospensione al duetto di addio che segue,” Ti abbraccio, ti stringo “, che riprende e sviluppa l’idea melodica iniziale  del primo duetto del Demetrio e Polibio: “Mio figlio sei “.

Un curioso particolare infine che rivela l’arguta “intelligenza”  rossiniana. Tutti i cantanti dovevano essere accontentati, comprese le seconde parti:  punto e, e non era facile evitare che deturpassero, con vocalizzi improvvisati e assurde fioriture, le cavatine; perciò Rossini preferiva scrivere ogni acrobazia vocale, indulgendo più o meno nelle pretese dei signori virtuosi. Per una seconda parte femminile appunto si trova a dover scrivere la consueta “aria del sorbetto”; ma ad un esame della voce s’avvide v’era ben poco da sbizzarrirsi. “Avevo a Ferrara (ricorda ancora Rossini) una seconda donna che ad  una spaventevole bruttezza univa una voce indecente. Dopo un accurato esame, mi accorsi che il suio registro vocale possedeva almeno una nota felice, il si bemolle centrale; ed allora scrissi un’aria in cui ella non doveva emettere che quella nota. mentre tutto il resto era affidato all’orchestra…” Si tratta dell’aria “Chi disprezza gli infelici” cantata dall’ancella di Amira verso la fine dell’atto secondo. Libretto dell’opera in allegato
(estratto da “Gioachino Rossini” di Luigi Rognoni, 1977)