Milano, Piccolo Teatro Studio Melato: “Hamlet”

Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, Stagione 2022/23
“HAMLET”
di William Shakespeare
Traduzione di Federico Bellini Drammaturgia di Linda Dalisi
Spettro di Hamlet/ Primo Attore/ Francisco/ Fortebraccio/ Primo Clown ANNA COPPOLA
Claudio FRANCESCO MANETTI
Gertrude FRANCESCA CUTOLO
Hamlet FEDERICA ROSELLINI
Orazio/ Gentleman STEFANO PATTI
Polonio/ Osrick MICHELANGELO DALISI
Laerte LUDOVICO FEDEDEGNI
Ofelia FLAMINIA CUZZOLI
Voltemand/ Cornelius/ Rosencrantz/ Guildenstern/ Marcello/ Luciano/ Lord/ Marinaio ANDREA SORRENTINO
Bernardo/ Reynaldo/ Secondo Attore/ Capitano, Messaggero/ Gentleman/ Secondo Clown/ Prete FABIO PASQUINI
Regia Antonio Latella
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Graziella Pepe
Luci Simone De Angelis
Musiche e Suono Franco Visioli
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Milano, 02 ottobre 2022
Quando frequentavo l’Accademia, avevamo, tra i tanti maestri di regia, uno che, di fronte alle nostre mille trovate da far mettere in pratica al cantante durante un’aria, ci diceva: “Ma fallo cantare! È lì per quello, no? Lascia stare tutte queste cose e lascialo cantare!”. All’epoca non capivamo del tutto quello che volesse dire; oggi, però, dopo centinaia di regie viste – e alcune pure fatte – il significato di quella nozione ci è molto più chiaro: un cantante d’opera è pagato per fare il cantante d’opera, vuole fare quello e il pubblico vuole vedere quello. A volte, invece, i registi sembrano sperare di avere a che fare con attori di formazione grotowskiana, schiacciando gli artisti con i macigni delle loro invenzioni. Incredibile, ma vero, la stessa cosa può accadere anche nella prosa: esistono regie ipertrofiche, che richiedono a un attore di saper fare davanti a un pubblico mille cose oltre che recitare, incorrendo nel più ingenuo dei cliché, e cioè che recitare sia “imitation of life”, togliendo alla recitazione il suo statuto artistico specifico. Questo fenomeno si è di gran lunga amplificato negli ultimi anni, con l’avvento del cosiddetto postdrammatico, e, lo diciamo chiaramente, ci ha allontanato e ancora ci tiene alla larga da diversi spettacoli di diverse realtà, anche molto celebrate. In queste pratiche, talvolta, incappano anche nomi insospettabili (o quasi): è il caso di Antonio Latella, venerato Maestro del Terzo Millennio, regista di cultura ed esperienza solidissime e insindacabili, che, tuttavia, negli ultimi dieci anni sembra aver concesso un po’ troppo a vezzi e mode. Il suo “Hamlet” – ormai da due anni sulla cresta dell’onda – non fa eccezioni: più di cinque ore (che diventano sei e mezza per i cambi di scena) di spettacolo site specific al Melato – lo spazio più bello e più sperimentale del Piccolo di Milano – con dieci attori ordinariamente bravissimi: questo strano ossimoro esprime proprio il fatto che gli attori siano effettivamente piuttosto ordinari (con l’unica eccezione di Federica Rosellini, un Hamlet en travesti come lo fu Sarah Bernhardt, che alterna momenti estremamente al di sopra dei suoi compagni ed altri distrattamente al di sotto, creando un personaggio in effetti compiuto e nuovo, giovane ed ironico, mai allucinato, mai folle, quanto disperatamente riverso su stesso), ma anche che ci paiano strepitosi, non in qualità di attori, ma di cantanti, atleti, musicisti, ballerini, nuotatori, presentatori e via così. Fra di essi solo tre sembrano esprimere un talento specifico per la recitazione: Anna Coppola nei panni di un fantasma lynchiano e grottesco, irresistibilmente nonsense, e di un primo attore rigoroso e ispirato; Andrea Sorrentino, volto rinascimentale e anima sdrammatizzante, costantemente sul limite tra realtà e finzione, cui è affidata metà dei mille ruoli di lato della produzione; e soprattutto Stefano Patti, nel ruolo di Orazio, ma anche del presentatore della serata, che legge il testo del Bardo in alcune scene – l’inizio e la fine, ad esempio, venendo usato dal regista come elegante éscamotage per disinteressarsi di una delle messe in scena più complesse del teatro shakespeareano, quel duello con finale di “Amleto” su cui spesso cadono anche le produzioni più blasonate: a lui il ruolo di spina dorsale dello spettacolo, tanto quanto e forse ancor più che alla Rosellini. Per il resto possiamo solamente dire che questa regia non consente agli interpreti di emergere davvero, di capirne le cifre interpretative, perché una volta impegnati a suonare, altre volte a correre come matti, altri ancora a spostamenti lunghissimi e impercettibili, poi a tuffarsi in una piscina (altra pratica furba, giacché una persona che si tuffa nell’acqua difficilmente non attira la nostra attenzione, specie se è bellissima come Flaminia Cuzzoli con indosso un bellissimo abito nero di foggia elisabettiana), a sbucar fuori da una botola, a contorcersi su un inginocchiatoio rotante, a cantare non indispensabili cover pop, a portare in scena una decina di relle con i costumi d’epoca degli storici spettacoli del Piccolo, a cercare di buttar via gli stessi costumi eccetera eccetera eccetera ancora ancora ancora uff uff uff. Ci fermeremo qui, anche se in cinque ore ne capitano di cose: la sensazione in generale è che sia tutto troppo, tranne quello per cui siamo venuti – Shakespeare, principalmente: perché la traduzione di Federico Bellini è oscena e pretenziosa (perché Amleto, Voltimando, Cornelio, Francesco e Rinaldo rimangono Hamlet, Voltimand, Cornelius, Francisco e Reynaldo? e perché salutarsi dicendo farewell, e dire frasi come “di’ a tuo padre di fare il fool a casa sua”, oltre che introdurre molto inutile turpiloquio?), e la recitazione latita, se non per i momenti che abbiamo indicato. In compenso abbiamo visto così tanto del resto che, se per le prime due ore ci ha affascinato (la scena francescana di Giuseppe Stellato con un pianoforte rotto, una panca da chiesa, un microfono e un inginocchiatoio, il mezzo centinaio di proiettori che Simone de Angelis fa calare sulla parete di fondo, l’impostazione quasi laboratoriale delle relazioni tra personaggi), alla lunga ci ha portato all’esasperazione, fino al coitus interruptus del finale. E, sia chiaro, la lunghezza non c’entra nulla, quanto l’uso approssimativo che si fa di questo tempo. Ed ecco riecheggiare le buone vecchie parole di quel maestro di regia: li lasci recitare, Latella. Lasci recitare i suoi attori. E lasci che gli spettatori paghino il biglietto per “Amleto” di Shakespeare, piuttosto che per un improbabile “Hamlet” di Antonio Latella: sarà d’accordo con noi che il confronto non potrà mai reggere davvero. Foto © Masiar Pasquali