Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni: “Madama Butterfly”

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione 2022/2023
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonino di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly VITTORIA YEO
B. F. Pinkerton DIEGO CAVAZZIN
Suzuki NOZOMI KATO
Sharpless SERGIO VITALE
Goro SAVERIO PUGLIESE
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Il Principe Yamadori CHAO LIU
Kate Pinkerton FRANCESCA MERCURIALI
Lo zio Yakusidé NICOLA ZAGNI
Il commissario imperiale MARCANDREA MINGIONI
L’ufficiale del registro MATTEO MONNI
La zia BARBARA CHIRIACÒ
La cugina MARIA KOMAROVA
La madre SILVIA TIRAFERRI
Dolore INES BERTAGLIA/SIMONE BIGI/ENRICO NERI
Lo spirito MONIQUE ARNAUD
Orchestra Filarmonica Italiana, Coro Lirico di Modena
Direttore Aldo Sisillo
Maestro del coro Stefano Colò
Regia, scene e costumi Stefano Monti
Luci Eva Bruno
Allestimento Fondazione Teatro Comunale di Modena
Modena, 28 ottobre 2022
Questa Butterfly ha tutta la dignità della provincia emiliana, con un retrogusto di routine. Il che non va necessariamente inteso in senso negativo, al contrario. L’allestimento di Stefano Monti non è una nuova produzione, ha quasi una ventina d’anni, e non vede l’ora di lasciarsi etichettare, da chi con disprezzo, da chi con soddisfazione, quale “tradizionale”. Il comune uso da foyer di quest’etichetta meriterebbe una lunga analisi: questa buona Butterfly “segni particolari: nessuno” ci consente almeno qualche considerazione, da mettersi fra parentesi. Siccome dividere gli allestimenti fra belli e brutti, riusciti e infelici pareva troppo razionale abbiamo i tradizionali e i moderni. I cosiddetti tradizionali seguono le didascalie del libretto, anche se non alla lettera: il melomane tradizionalista si accontenta anche soltanto del kimono. Ma il regista no, e in genere inserisce qualche tocco simbolico, anti naturalistico, per sgravarsi la coscienza. I cosiddetti moderni, con trovate che possono superare allegramente il mezzo secolo d’età, sono gli allestimenti minimalisti, metaforici, o, come si usa dire, di regia, alla tedesca: il melomane modernista, decisamente più chic e à la page, è felicissimo del cappotto e incrocia le dita per il nudo. Gli allestimenti della prima specie si fanno sempre più rari e il pubblico, che se ne è accorto letteralmente a proprie spese, li premia sempre più volentieri, mentre i “colti” storcono il naso. Ecco ora il paradosso: quella che nella nostra provincia è una Butterfly “normale” è oggi una autentica rarità, come, signora mia, la frutta che non sa più come una volta. Chiusa la parentesi (ma non il discorso).Lo spettacolo, si sente, è fatto con molta cura e con molto affetto. E però non perviene ad esiti che vadano oltre una buona e giusta superficiale approssimazione: i ventaglioni delle quattro stagioni, l’onda di Hokusai. Quando invece nell’opera il Giappone è ben più della vecchia cartolina della vecchia zia.
La direzione spigolosa sembra suggerire i moti scattosi e da marionetta della piccola geisha; talvolta esitante, talaltra in rincorsa dei solisti che le sfuggono, ostinati e dispettosi, come una saponetta troppo bagnata. Routine vuol dire anche questo: solido mestiere, e non è poca cosa. Aldo Sisillo è direttore acrobata. Anche se non poeta. Nel cast si distinguono Sergio Vitale, uno Sharpless stilisticamente perfetto e dotato di felicissimo timbro; e Nozomi Kato, una Suzuki che non sta un passo indietro, partecipe della tragedia, anche qui un timbro pieno e corposo che vince l’acustica asciuttissima e sobria della sala. Diego Cavazzin non è un Pinkerton ragazzino, ma si conquista la simpatia con una dizione curiosamente emiliana e un’emissione posizionata piuttosto alta, ben squillante, sul ciglio del nasale, ma senza scivolare in quel baratro.
La protagonista è Vittoria Yeo, cantante di grande intelligenza. La voce non è di grandi dimensioni né di soggiogante bellezza è il timbro: non c’è pericolo di “gigionate”. Molto misurata infatti l’interpretazione, che tuttavia si scioglie e nel secondo atto sfodera una personalità insospettata, dalla scena della lettera a seguire. Finché nel finale anche la voce si fa più generosa di armonici: miracolo o suggestione, a teatro valgono entrambi. Molto dignitosi anche tutti i personaggi satelliti della vicenda: dallo zio Bonzo, spaventosamente cotonato ed ispido, tanto nella parrucca quando nella dizione, ma largo di voce; al principe Yamadori, dotato di voce piena e di solida emissione; dal sensale Goro, ambiguo e macchietta q. b.; allo zio briaco e pazzo che butta giù sakazuki colmi di sakè, o forse di brodo di cappone. Nulla di davvero disturbante ma nemmeno nulla di esaltante. Il livello è molto buono e omogeneo ma non c’è incanto, non c’è magia, non c’è rapimento, non c’è estasi, non c’è commozione catartica. C’è il brivido epidermico, quello sì. Insomma quello che eravamo andati a cercare. Foto Rolando Paolo Guerzoni