Firenze, Teatro del Maggio: “Don Carlo”

Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, Stagione Lirica 2022/2023 Festival d’Autunno del Maggio Musicale Fiorentino – Dedicato a Giuseppe Verdi. Inaugurazione del rinnovato palcoscenico della sala grande
DON CARLO
Opera in quattro atti su libretto di François-Joseph Méry e Camille du Locle dalla tragedia Don Carlos, Infant von Spanien di Friederich Schiller. Traduzione italiana di Achille de Laurières e Angelo Zanardini
Musica di Giuseppe Verdi
Filippo II, Re di Spagna MIKHAIL PETRENKO
Don Carlo, Infante di Spagna FRANCESCO MELI
Rodrigo, marchese di Posa ROMAN BURDENKO
Il Grande Inquisitore, cieco nonagenario ALEXANDER VINOGRADOV
Un frate EVGENY STAVINSKIY
Elisabetta di Valois ELEONORA BURATTO
La Principessa Eboli EKATERINA SEMENCHUK
Tebaldo, paggio di Elisabetta NIKOLETTA HERTSAK
Il conte di Lerma/un araldo reale JOSEPH DAHDAH
Una voce dal cielo BENEDETTA TORRE
Deputati fiamminghi DAVIDE PIVA, EDUARDO MARTINEZ FLORES, MATTEO TORCASO, MATTEO MANCINI, VOLODYMYR MOROZOV, WILLIAM HERNÁNDEZ, LODOVICO FILIPPO RAVIZZA, ROMAN LYULKIN
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Roberto Andò
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video Luca Scarzella
Nuovo allestimento – Inaugurazione del rinnovato palcoscenico della sala grande
Firenze, 3 gennaio 2023
Il Don Carlo che perde la s non è più lui: non in francese, non in cinque atti e non completo di divertissements ha ben poco delle originali intenzioni dell’autore. Che poi l’autore si fosse amaramente rassegnato a compromessi (vedendosi l’opera malamente distrutta dai tagli altrui pensò almeno di farsene di proprî) non può essere una ragione a favore dei quattro atti: semmai è contro. Il peccato più grande è dunque quello originale della scelta dell’edizione, imputato (ma non unico) il Maestro Daniele Gatti. Con l’aggravante: non solo ci priva di “Fontainebleau,” ma ci priva di quel che sarebbe stato Fontainebleau nella sua magnifica concertazione, senza dubbio l’ingrediente migliore di questa produzione. Il virtuosismo dell’orchestra lo consente: nitore assoluto, trasparenze, contrasti di dinamiche estreme, tremoli fittissimi, accenti drammatici, tinte di somma suggestione, e tutto col massimo garbo. Ed anche il Coro asseconda mirabilmente. Il più in sintonia con la direzione è Francesco Meli. Le vibranti consonanti che gli fanno da trampolino e con cui scolpisce il fraseggio sempre vario, vivente, palpitante, lo squillo argenteo di che si tinge il suo timbro privilegiato, l’ampio ventaglio di sfumature di cui dispone, e una spontanea musicalità: tutte queste qualità lo rendono un protagonista memorabile. Che s’inserisce nell’ideale genealogia che da Pertile arriva a Carreras, passando per Corelli. Che poi sarò tuo salvator non brilli è peccatuccio da cui persino il Grande Inquisitore l’assolverebbe di buon grado.  Eleonora Buratto ha voce tonda e piena, florida, sontuosa, che sale all’acuto coprendo amorosamente il suono. La cantante non si trasfigura: resta cantante. E tuttavia grande cantante. La Eboli di Ekaterina Semenchuck è tutta giocata sui necessari e inevitabili schiarimenti, sfoltimenti, alleggerimenti di voce, con una corretta emissione cerebrale piuttosto alta (certo, anche nel registro grave) e limitando il volume: una Eboli un po’ delicata? Lo scoglio delle agilità viene arginato da qualche approssimazione, però convincente e insinuante.
Il Rodrigo di Roman Burdenko non manca di voce, nonostante l’emissione sforzata e faticosa, ma di quelle sfumature che sono, ormai s’è detto e ripetuto, il tratto stilistico il più evidente di questa produzione. Così pure Mikhail Petrenko, Filippo II: il timbro non sensazionale gli imporrebbe quel famoso scavo sulla parola, sugli accenti, che ha reso celebri grandi interpreti dalle voci non straordinarie, a partire da Vanni Marcoux. Il trio di bassi si completa con gli ottimi Alexander Vinogradov (Grande Inquisitore) e Evgeny Stavinskiy il misterioso monaco, supposto fantasma di Carlo V. Allestimento nero e oro, scena fissa di pizziana pulizia spaziale, popolata solo di cipressi, purtroppo poi imbrattata da proiezioni naïf che malcelano l’imbarazzo della staticità; costumi vagamente storicizzanti. Lo spettacolare dell’Auto da fé lascia un poco a desiderare (Elisabetta che si lascia lentamente ammantare agguantare inanellare ingioiellare…) ma il periodo di difficoltà del teatro ne è la giustificazione. Nulla che disturbasse il paradisiaco ascolto, dunque, ma nemmeno che vi aggiungesse qualcosa. Foto Michele Monasta