Milano, Teatro Franco Parenti:”Tartufo”

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2022/23
TARTUFO”
di Molière nella versione di Cesare Garboli
Orgone ROBERTO VALERIO
Pernella, sua madre ELISABETTA PICCOLOMINI
Elmira, sua moglie VANESSA GRAVINA
Damide, suo figlio MARCELLO DI GIACOMO
Marianna, sua figlia IRENE PAGANO
Cleante, fratello di Elmira MASSIMO GRIGÒ
Tartufo GIUSEPPE CEDERNA
Adattamento e Regia Roberto Valerio
Scene Giorgio Gori
Costumi Lucia Mariani
Luci Emiliano Pona
Suono Alessandro Saviozzi
Produzione ATP Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Toscana
Milano, 10 maggio 2023
Il pubblico italiano a Molière ha sempre dato un riconoscimento a metà: lo vediamo, per lo più, come una specie di antesignano di Goldoni, un maestro della commedia borghese cui il nostro drammaturgo ha saputo dare qualcosa in più. I modi di mettere in scena Molière, perciò, si sono di soliti attenuti a quello che il pubblico si aspettava di vedere, ossia un Goldoni in salsa francese (sorte capitata anche a Marivaux e Beaumarchais, peraltro). Finalmente, invece, possiamo dire di aver visto un Molière trattato per quello che è, cioè un classico della cultura occidentale, capace di parlarci anche senza la patina sei-settecentesca che gli si vuol affibbiare ancora oggi: “Tartufo” nella produzione dell’ATP è un’attualizzazione radicale del testo di Molière – e per questo ne rispetta l’autorevolezza, come si fa con chiunque cerchiamo di adattare. Non solo: questa versione del celebre testo si rifiuta di portare in scena unicamente pochade, equivoci e tutto il bagaglio di gustosa comicità che l’originale ci offre; qui si va più a fondo, si indagano i rapporti di potere, si strizza l’occhio alla critica sociale e si fa riaffiorare la tragedia tra le righe, con l’aiuto di luci e musiche (curate da Emiliano Pona e Alessandro Saviozzi) in totale contrasto col tono giocondo del testo. L’effetto è sì straniante, ma anche illuminante, e, soprattutto, in grado di togliere dalle labbra di tanto pubblico quel sorrisino preconcetto che si deve avere se si va a vedere una commedia. No: qui si ride quando c’è davvero da ridere, e per il resto si osserva, anche con una certa inquietudine, il disastro di un uomo che per amor di fede porta l’intera sua famiglia sul baratro. Adattamento e regia di Roberto Valerio, in tal senso funzionano perfettamente, restituendo questo interno borghese annoiato e frivolo – tra piscine sul tetto, cameriere scollacciate e bollori adolescenziali – nel quale Tartufo si staglia come un’alternativa di rigore, rinuncia, integrità morale. E Orgone, pater familias ultraconservatore, non può fare a meno di innamorarsi del “Sant’Uomo” come viene chiamato continuamente il predicatore. In realtà Tartufo dà un senso a quest’uomo, alla sua vita che non è più sua ma dell’entourage a tratti spaventoso che lo circonda (moglie, figli, cameriera e cognato), una vita che egli è propenso a rifiutare. Ed è questa la lezione che ci offre questo testo: la colpa di Orgone non è dar credito al ciarlatano di turno, ma non accettare la propria condizione, farsi perseguitare dall’idea di non essere abbastanza degno; in tal senso ecco che la soluzione che già Molière propone (e che Valerio rilegge in chiave metafisica) è rassicurante: c’è chi veglia su di noi, che si preoccupa affinché una legge più alta venga rispettata – il Re, vero deus ex machina del testo. La resa scenica è particolarmente efficace: la scena modernissima e quasi immobile di Giorgio Gori, i costumi anni ’60 di Lucia Mariani e la traduzione di Cesare Garboli rendono perfettamente una certa atmosfera da boom economico e rivoluzione sessuale. Le interpretazioni sono tutte di alto livello e chiara professionalità, a partire da quella del regista stesso nei panni di Orgone, passando per due interpreti femminili del nostro teatro mai abbastanza ricordate, come Vanessa Gravina ed Elisabetta Piccolomini (moglie e madre del protagonista), l’una bellissima e consapevole, ma anche gradevolmente a suo agio con la scena più celebre e più comica del testo (la seduzione dell’Atto Quarto), l’altra altera e dotata di una vocalità fascinosa d’altri tempi; gigione e vagamente sopra le righe Massimo Grigò (Cleante), mentre giustamente un po’ bamboleschi, venati di tragicità, sono i fratelli Marianna e Damide – interpretati da Irene Pagano e Marcello Di Giacomo. Una menzione a parte merita la spumeggiante Roberta Rosignoli, in un ruolo senza dubbio a lei congegnale (la cameriera Dorina), ma che arricchisce di una fisicità prorompente e una naturale tendenza al gioco scenico e alla pantomima. Infine, Giuseppe Cederna, il protagonista eponimo, che regge gran parte dell’opera (insieme a Valerio) giocando con l’ambiguità del ruolo ripensato: eppure Cederna non sembra essere convinto, e ci offre una performance un po’ a metà, tra la truffaldina comicità originale e il lupo travestito da tragico agnello sacrificale della rilettura; avremmo forse apprezzato una interpretazione più marcata in una delle due direzioni, che identificasse più drasticamente il personaggio – fermo restando l’indiscutibile talento di Cederna anche in questo contesto. Sebbene non si conceda intervallo, lo spettacolo fila dritto senza un momento di calo e il pubblico che affolla la Sala Grande del Parenti sembra gradire particolarmente, con una decina di chiamate del cast sugli applausi. Non possiamo che concordare con la vox populi, in questo caso, dato che la sensazione è che abbiamo appena assistito a una sorta di rinascita molieriana, che ci auguriamo non si affievolisca presto. Foto Marco Caselli Nirmal