A cura di Elisabetta Chiodetti
È già alcuni anni che il Castello di Novara si rende protagonista della scena espositiva nazionale, ponendosi come chiaro interlocutore di spazi del calibro del milanese Palazzo Reale o della Palazzina di Stupinigi. Questa preminenza vede in alcune scelte oculatissime la sua chiara origine, e qui intendiamo riferirci all’aver affidato a Elisabetta Chiodetti la curatela delle ultime mostre di grande successo. Anche questa “Boldini, De Nittis e les Italians de Paris”, acccessibile fino al 07 aprile, non fa eccezione: Chiodetti, infatti, ha saputo cogliere il vero zeitgeist del luogo, questa Novara sonnacchiosa e vagamente snob, neoclassica nel senso più borghese del termine, e con esso l’offerta più giusta per questo tipo di area e di bacino d’utenza – una serie di artisti e di tematiche altrettanto borghesi, rassicuranti, in cui la provincialità non sfocia mai nel provincialismo, ma diviene garante di un’estetica pienamente fruibile dal sapore largamente identitario. E questa operazione, beninteso, avviene comunque nel pieno rispetto di una domanda artistico-culturale alta, che possa avere appeal anche sullo studioso, l’appassionato, o semplicemente l’avventore più snob ancora. Già il titolo di questa brillante esposizione “Boldini, De Nittis e les italiens de Paris” sottende una leggera ambizione, ossia che esistesse a Parigi un gruppo di artisti italiani coeso e influente sulla cultura francese del tempo, cosa vera solo molto limitatamente, e presa in considerazione in tempi piuttosto recenti dall’accademia; ancora trent’anni fa Boldini e De Nittis si conquistavano a malapena qualche riga sui manuali di storia dell’arte, magari un elzeviro sulla stampa nazionale, un intervento veloce su quella specializzata – e senza alcun dubbio a torto, soffocati dalle ingombranti (e spesso più voluminose che sostanziali) personalità dei vari impressionisti e post-tali, o dei macchiaioli in patria. Tuttavia il conio dell’espressione “les italiens de Paris” è funzionale, evocativo e nobilitante, rimanda subito a un tourbillon di avventure tra il bohémien e il salottiero che immaginiamo uscire dalla penna di Zola o Proust, animate da démi-mondaine da operetta ed ereditiere naïf infiocchettate per i gonzi pronti ad impalmarle, all’ombra della tendina in velluto di una vettura a cavalli. E questo è esattamente ciò che la mostra ci offre, un sogno parigino fin-de-siècle tra Place Clichy e Place de la Concorde, intervallato da qualche fugace capatina sul Mediterraneo. Giovanni Boldini (1842-1931) ci stordisce letteralmente delle sue muse, siano esse le milionarie desiderose di ritratti celebrativi (come le sorella Concha de Ossa, nipoti di un diplomatico cileno) o le sue amichette dagli amanti danarosi (la più ispirata delle quali senza dubbio fu Berthe); trova quindi nell’aristocratica burrosa e disinibita contessa Gabrielle de Rasty una sintesi perfetta di diafana estetica da salotto e madida sensualità – come nello scandaloso olio su tela “Dopo il bagno” o nel ritratto a seno nudo a pastello su seta; eppure è l’ignota modella di “Treccia bionda” la più conturbante, con lo sguardo audace dal sopracciglio sapientemente arcuato accostato alle efelidi leggere del volto adolescente ancora rubizzo. Giuseppe De Nittis (1846-1884)rappresenta il perfetto contraltare della sapida, lisergica pennellata boldiniana: la sua è una Parigi evanescente, paradossalmente pittorica, ove nebbia, cielo, volti e palazzi si fondono in un indistinguibile holos colorifico, un altrove in cui le regole del sogno superano quelle delle naturali fisicità e proporzioni (esemplare, in tal senso, la sua “Lezione di pattinaggio”); egli è l’unico che porta a Parigi una chiara consapevolezza realista e macchiaiola, che lo pone in aperto dialogo con Manet, Monet ma anche con la precedente scuola di Barbizon – Corot su tutti. Federico Zandomeneghi (1841-1917), da parte sua, rappresenta un’istanza eterna di italianità, il mantenimento di quella forma così smaccatamente nostrana (ancor più veneziana, come l’artista) che peraltro lo renderà il meno fortunato dei nostri expat parigini: il suo desiderio di struttura interna alla tela si riscontra sia nella caldissima “Place d’Anvers” (col suo esacerbato prospettivismo), che nel “Colloquio al tavolino”, ardito nella posizione dei soggetti come nell’atmosfera sospesa e rarefatta, che preconizza la scuola di Pon-Aven. Infine, Vittorio Matteo Corcos (1859-1933), l’unico che di Parigi si liberò ben presto per ritrovare il giusto riconoscimento in patria, si staglia come il naturale erede di tutt’e tre gli autori che lo precedettero, sia elegante cantore della femminilità mondana, sia propugnatore di un’estetica consapevolmente simbolista (nel geniale “Le istitutrici ai Campi Elisi”, ad esempio), che compositore di scene e soggetti dai toni più smaccatamente déco – superlativo sia nel celebre “Ritratto di Lina Cavalieri”, sia in quello di gusto neorinascimentale di Lia Goldman Clerici. La mostra non è nient’altro che questa splendida ubriacatura, che probabilmente avrebbe richiesto spazi meno angusti delle sale dell’Ala degli Sforza, ma che al contempo proprio in questo contesto dalle dimensioni raccolte acuisce il senso d’intima alcova, di dimensione del cuore, che la maggior parte di queste tele comunica quasi involontariamente; consigliatissima anche per la puntuale e non troppo pedante spiegazione delle opere principali. Per tutte le informazioni, qui.