Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica “Autunno 2024”
“LA CENERENTOLA”
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti, dalle opere di Perrault, Étienne e Fiorini.
Musica di Gioachino Rossini
Don Ramiro PATRICK KABONGO
Dandini WILLIAM HERNANDEZ
Don Magnifico MARCO FILIPPO ROMANO
Clorinda MARIA LAURA IACOBELLIS
Tisbe ALEKSANDRA METELEVA
Angelina TERESA IERVOLINO
Alidoro MATTEO D’APOLITO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Manu Lalli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Gianna Poli
Luci Vincenzo Apicella (riprese da Valerio Tiberi)
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 24 settembre 2024
Aspettando una promettente stagione 2025, che vedrà anche il ritorno del balletto, “La Cenerentola” di Rossini inaugura la sezione d’opera della proposta autunnale. Se a inizio Ottocento la protagonista non avrebbe di certo potuto scoprire la caviglia per calzare la famosa scarpetta, da sempre non contemplata nell’opera, è altrettanto vero che gli spettatori arrivano in teatro con l’immaginario della Disney negli occhi. Così, la regia di Manu Lalli recupera sapientemente la componente magica della fiaba, senza ridurne il potenziale attuativo. Non è un caso che scintillanti fatine danzino intorno alla protagonista durante le sue letture; le stesse consegneranno ad Angelina la coppia di bracciali in vece delle scarpette o, al ballo, spingeranno il principe a imbattersi in lei, per poi prontamente ricordare lo scadere della mezzanotte. Fa da sfondo la barocca cornice francese delle scene di Roberta Lazzeri, plasmate con spezzoni di pareti rotanti, combinate a comporre i vari ambienti e abilmente dilatate da una fusione prospettica col pavimento a scacchiera del palco. Anche i costumi di Gianna Poli, in bilico tra Settecento e Ottocento, fanno la loro parte, mentre le luci di Vincenzo Apicella (riprese da Valerio Tiberi) ben enfatizzano il temporale che bloccherà la carrozza del principe davanti alla casa di Cenerentola. Un’atmosfera fiabesca che è ben lontana dall’essere fine a se stessa, poiché la componente magica è qui solamente il tramite per realizzare il trionfo delle virtù della protagonista, germogliate tra la luce fatata dei libri della biblioteca materna e progressivamente messe in pratica nel mondo reale, fino all’epilogo. Ed è qui che assistiamo a una piccola sorpresa: nel finale i riflettori sono puntati sul pas de deux dei due novelli sposi, ma appena prima della chiusura di sipario la giovane resta un attimo da sola, con lo sguardo rivolto verso il pubblico… ecco a voi una Cenerentola moderna ed emancipata: c’è davvero bisogno del principe? Complessivamente di buon livello anche la compagine musicale, a partire dalla direzione di Gianluca Capuano, che è parso piuttosto ferrato nella conduzione, a meno di qualche disomogeneità nell’agogica. Intensa la sinergia col motivato coro di Lorenzo Fratini e con l’orchestra del Maggio, che ha reso possibile suoni compatti e di notevole nitore, all’interno di una direzione vivace e spigliata negli inserti più buffi, impavida di fronte a fulminei sillabati e duttile nella ricerca di spunti coloristici. Nel ruolo principale, Teresa Iervolino dà prova di consolidata esperienza, restituendo appieno l’evoluzione del personaggio. Con particolare predilezione per gli staccati, il mezzosoprano esordisce con timidi toni flemmatici in “Una volta c’era un re”, per poi dare sfoggio del brunito timbro dei centri, un po’ meno robusto sui gravi, particolarmente malleabile nel risolvere le rapide volatine e le impervie agilità che saggiano l’intera gamma dell’estensione. Il portamento ben si distingue da quello delle sorellastre e più che presentarsi al ballo per “imprinciparsi”, i toni elegiaci ricercano una sincera predisposizione al rispetto, all’amore e alla bontà. L’impulso lirico e lo spirito interpretativo sbocciano nel rondò finale e nelle variazioni virtuosistiche della cabaletta, di spiccato senso ritmico, sebbene si avverta qualche suono acuto più sfuggente. Accanto a lei, faceva da protagonista il sensazionale Don Magnifico di Marco Filippo Romano, in strabiliante coesione col personaggio e capace di fiutare i più minuziosi appigli espressivi della parte. Lo scavo vocale e dinamico nell’alternanza di accenti, rimarchi, chiusure di frase, falsetti e rapidità di sillabati, è sorretto dalla dovuta gestione della respirazione e da un buon sostegno, che gli consentono un sicuro effetto sui rapidissimi sillabati. Decisamente a suo agio con la tessitura, il cantante mantiene il caldo colore timbrico e la perlopiù nitida ed efficace proiezione anche sulle frasi di maggiore spinta e tenuta, per un’interpretazione davvero a tutto tondo. A chiudere il quartetto familiare, Aleksandra Meteleva (Tisbe) e Maria Laura Iacobellis (Clorinda) sono due sorellastre scenicamente goffe e credibili, chiamate a fare i conti con coreografie impegnative, che (al pari dei loro colleghi) sono costate loro qualche asincronia. Se per la prima il riscatto da un registro grave talora ristretto non è contemplato in partitura, la seconda ha potuto esibire il suadente timbro sopranile e le proprie doti virtuosistiche nel suo momento solistico, costellato da pirotecniche variazioni di squillante sonorità. A palazzo, il “falso” principe di William Hernandez ben si confà a una certa difficoltà del baritono nel sostenere i tempi ampi delle frasi più aristocratiche, dove l’emissione risulta meno limpida, dimostrandosi più conforme ai panni del cameriere, risolto con brillantezza di fraseggio e verve comica. Più controverso, invece, l’Alidoro di Matteo d’Apolito, che si conferma un deus ex machina molto abile nell’interagire con le danzatrici incantate, ma a tratti un po’ approssimativo nell’uso della parola e sui passi di coloratura, a fronte di un’emissione non sempre a fuoco. Chiudeva il quadro il Don Ramiro di Patrick Kabongo, il cui soave timbro di tenore lirico-leggero, unito a una certa equilibratezza nel porgere le frasi, tratteggia con gusto il carattere del “vero” principe, anche se rimane un po’ sullo sfondo nei momenti di maggiore impeto, sfogati in un registro acuto sicuro, ma poco svettante. Caloroso l’applauso del pubblico in sala al termine della lunga rappresentazione. Foto Michele Monasta