Milano, Teatro Menotti, Stagione 2024/25
MEDEA
di Euripide
Medea ROMINA MONDELLO
Giasone GIANLUIGI FOGACCI
Nutrice DEBORA ZUIN
Creonte PAOLO COSENZA
Coro CAMILLA BARBARITO, NICOLAS ERRICO, CLAUDIO PELLEGRINI
Regia Emilio Russo
Scenografia Dario Gessati
Musiche Andrea Salvadori
Costumi Pamela Aicardi
Produzione Tieffe Teatro
Milano, 12 ottobre 2024
La “Medea” di Emilio Russo, in scena al teatro Menotti di Milano, è uno spettacolo formalmente quasi ineccepibile: la scena, i costumi, i movimenti dei personaggi sono tutti tesi a una ponderata classicità, che trova un’efficace contraltare nei canti del Mediterraneo che sostituiscono gli stasimi del coro (suggestivamente interpretati da Camilla Barbarito e ben intessuti nel malioso progetto sonoro di Andrea Salvadori). C’è anche la ricerca di un patinato manierismo, con posizioni estremamente studiate, luci di taglio che accentuano le volumetrie, uso accademico della voce da parte di tutti gli interpreti, e questo non è di per sé un male, anzi: in un panorama a tratti stancamente postdrammatico, com’è la prosa meneghina, sorprende che un teatro di ricerca produca una “Medea” così demure, per usare un termine recentemente divenuto caro al popolo della rete; questo spettacolo è esattamente come dovrebbe essere e probabilmente come vorrebbe. Ma – doveva esserci un “ma” – questo classicismo, che abbiamo trovato perfettamente condivisibile per quanto riguarda gli aspetti visuali, si esaspera invece nella recitazione dei personaggi, specialmente in Romina Mondello: la sua è una Medea gelida, che snocciola un eloquio lentissimo e nel quale ogni parola è pesata, riflettuta; questo, contrariamente a quello che si può credere, è un errore, giacché se pesiamo e riflettiamo ogni parola il risultato che otteniamo è come se non ne pesassimo né riflettessimo alcuna; e infatti la Mondello cade più di una volta anche nella trappola di questo modus operandi, cioè la cantilena, nel suo caso una cadenza vagamente da hostess di volo, incapace di gridare, di arrabbiarsi, di alzare la voce per qualsivoglia motivo, e semmai che si rifugia nel mormorio, nel sussurro (tanto tutti gli interpreti sono microfonati). Accanto a lei Gianluigi Fogacci mostra una verve ben diversa, ma che spesso si trattiene, proprio per assecondare il registro della protagonista. Apprezzabile, invece, Debora Zuin, proprio grazie a una maggiore naturalezza del fraseggio, per quanto con un ruolo di lato (la Nutrice). Il risultato è che un testo che sarebbe dovuto durare un’ora (visti i larghi taglie effettuati sull’originale euripideo) dura più di due, lentamente dissanguando il pubblico. Questo è il vero rischio di una messa in scena tanto estetizzante: la noia, cui nessuno, dal critico più feroce al ragazzino portato per la prima volta a teatro, è immune. Questa “Medea” è visivamente splendida, ma piuttosto noiosa sul piano performativo, e, per di più, senza un’apparente ragione (giacché lo stesso spettacolo funzionerebbe sicuramente meglio cambiando unicamente il ritmo). Peccato, poiché più di una volta ci siamo professati strenui sostenitori delle messe in scena di teatro classico, ma queste devono fare i conti con una ricevibilità da parte del pubblico, che non significa snaturarne per forza la radice antica, ma nemmeno trattare questa materia con un’archeologica, per quanto commovente, riverenza. Foto Roberto De Biasio