Napoli, Teatro Bellini: “Tragùdia – Il canto di Edipo”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“TRAGÙDIA – IL CANTO DI EDIPO”
Spettacolo di Alessandro Serra

Liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
Traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
Con: ALESSANDRO BURZOTTA, SALVATORE DRAGO, FRANCESCA GABUCCI, SARA GIANNELLI, JARED MCNEILL, CHIARA MICHELINI, FELICE MONTERVINO

Regia, Scene, Luci, Suoni, Costumi Alessandro Serra
Voci e Canti Bruno de Franceschi

Collaborazione ai Movimenti di Scena Chiara Michelini
Collaborazione al Suono Gup Alcaro
Collaborazione alle Luci Stefano Bardelli
Collaborazione ai Costumi Serena Trevisi Marceddu

Direzione Tecnica e Tecnica del Suono Giorgia Mascia
Direzione di Scena Luca Berettoni
Costruzione Scene Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
Produzione Sardegna Teatro, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
In collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia
Napoli, 13 novembre 2024
Quando Edipo arriva a capire – afferma Pasolini intervistato, nel 1968, da Jon Halliday –, non gli serve più. E non gli serve più capire proprio perché, quando è costretto a fare i conti con la realtà, quando comprende che non è possibile modificare la realtà, preferisce «uscir fuori» da essa; preferisce, cioè, collocare e costringere se stesso in una degradante condizione autopunitiva, quella della cecità. Gli occhi, quando non sanno cercare e osservare la verità, servono a poco. Forse, se Edipo avesse vissuto razionalisticamente, se avesse «affrontato» la realtà (e se l’avesse studiata analiticamente, come un poeta o come un «intellettuale», per dirla ancora con Pasolini), avrebbe anche potuto modificarla. Però, in quel caso, sarebbe stato «accecato» da altri. È una tragedia dal carattere irreversibilmente «pessimistico», perché destinata a un’eterna irresolutezza o a risoluzioni fatalmente drammatiche. Tragùdia – Il canto di Edipo, di Alessandro Serra, è tutto ciò che resta d’un teatro sottratto a se stesso e fatto a pezzi. Il corpo d’un teatro dal carattere «neoavanguardistico»; martire stupendo di una «rivoluzionaria» operazione di squartamento dell’elemento di potere per eccellenza, il linguaggio – parafrasando il filosofo Gilles Deleuze che, in Sovrapposizioni, scrive di «teatro esperimento» in riferimento proprio al «non-teatro» di Carmelo Bene, artefice di un atipico teatro neoavanguardista, anche se quest’etichetta è puramente convenzionale. È, dunque, un teatro d’ispirazione beniana; un teatro linguisticamente «crudele» – determinato, soltanto contenutisticamente, dai testi tragici di Sofocle. Non è un teatro borghese, proprio perché non è una culla consolatoria entro cui poter dormire «beatamente», e non ha pretese moralistiche. È un irrazionalistico momento di «crisi collettiva», i cui sintomi risiedono nella potenza sonora d’un linguaggio antico e «nuovo», morto e vivo, tragicamente brillante e robusto: il grecanico (nella traduzione di Salvino Nucera); una lingua che, ancora oggi, sopravvive in angoli remoti di ciò che fu la Magna Grecia, nel profondo Meridione d’Italia. Un linguaggio stupendamente folclorico, a cui viene consegnata una nuova dignità, sia pure soltanto in termini teatrali. Ma, proprio per questo motivo, la rappresentazione appare come mitizzata, perché gonfia di una vaga sacralità; un linguaggio che, dunque, travalica il senso logico o psicologico delle frasi, e che consente allo spettatore di trovare un senso non nella struttura sintattica del testo, ma nella potenza comunicativa ed espressiva del suono, sia pure apparentemente inafferrabile.
Un teatro non costituito da dialoghi canonici o da consuete conversazioni, ma fatto di «monologhi a due, tre o a più voci»: sonorità pure, dal carattere poeticamente popolare, organizzate entro una cornice espressiva ed espressionistica più ampia, entro un affresco collettivo, corale; un affresco non costituito da personaggi, ma da figure, la cui funzione è vigorosamente drammatica. Nel coro, risiede la coscienza del re di Tebe: gli attori agiscono attraverso canti (scritti da Bruno de Franceschi) potentemente vigorosi, immersi in un’atmosfera arcaica e ancestrale. Il tono disperato e primitivo dei canti affligge moralisticamente l’incestuoso e parricida Edipo, costretto a scendere a patti con le sue tremende colpe: figlio-sposo di sua madre, fratello-padre dei suoi figli. Ottimi, dunque, gli attori – avvolti in costumi austeri e severi: Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Chiara Michelini, Felice Montervino. Soltanto Edipo, interpretato da Jared McNeill, appare come il testimone (anzi, come il primo testimone) della nevrotica «disperazione» dell’uomo «contemporaneo» (un riferimento, qui, alle teorie psicoanalitiche freudiane è pressoché scontato, ma fatalmente inevitabile). Ed è per questo motivo che soltanto Edipo, proprio perché già «uomo moderno», può e riesce a staccare se stesso dall’affresco corale, agendo e cantando sotto il segno d’una angoscia realisticamente umana, tra brusche variazioni di tono e momenti di commovente introspezione. Un teatro, dunque, assimilabile alla poetica teatrale del drammaturgo francese Antonin Artaud, il papà del cosiddetto «Teatro della crudeltà», la cui «invivibilità» non è dettata da princìpi sadomasochistici, ma dalla «crudele» operazione di «esemplificazione», a cui il registascenografocostumista, Alessandro Serra, sottopone il contenuto originario della tragedia, inserito in una struttura scenica estremamente stilizzata e nitidamente illuminata (costruita da Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu e Loic Francois Hamelin). Un rigore matematico e schematicamente geometrico determina le danze e i movimenti dei cantanti-attori: atti teatrali che vanno a comporre un complesso sistema di segni linguistici, inquadrati entro un’astratta struttura sintattica: la potenza comunicativa viene affidata a gesti netti, taglienti e tragicamente asciutti; viene, dunque, affidata a una «scrittura-di-scena»: locuzione «sottratta» alla poetica teatrale di Carmelo Bene – svuotata, qui, però, della sua funzione originaria: in questo caso, la scrittura scenica non determina il linguaggio orale, ma quello gestuale. Linguaggio sostenuto da suoni violenti e drammatici, ideati dal regista medesimo. Un pubblico, attento e commosso, accoglie entusiasticamente questa gemma drammatica del teatro contemporaneo. Foto Alessandro Serra