Roma, Nuovo Teatro Ateneo, Stagione Teatrale Sperimentale
“PREMIÈRE”
Coreografia Andrea Costanzo Martini
Musica Planningtorock, Matmos, Olafur Arnalds, Dean Hurley, David Wenngren, Major Iazer
Lighting Design Fabiana Piccioli
Costumi Shira Wise
Corpo di ballo Balletto di Roma (Paolo Barbonaglia, Roberta De Simone, Alessio Di Traglia, Alice Fenu, Marcello Giovani, Francesco Moro, Aurora Paoloni, Giulia Strambini)
Direzione Artistica Francesca Magnini
Organizzazione evento Prof. Vito Di Bernardi
Roma, Nuovo Teatro Ateneo, 26 settembre 2024
Première, si intitola lo spettacolo presentato dal Balletto di Roma al Nuovo Teatro Ateneo in occasione della stagione sperimentale chiamata a valorizzare la riapertura dello stesso teatro. Ma è davvero una prima? Nel cercare la risposta a questa domanda ci confrontiamo con un processo creativo molto peculiare e affascinante. Nato dalla volontà di collaborare con il coreografo Andrea Costanzo Martini, già distintosi per il lavoro sullo spettacolo Intro nel 2018, lo spettacolo è stato portato avanti tramite la piattaforma digitale Zoom mentre il coreografo si trovava a Tel Aviv in tempo di pandemia. Da qui è poi derivata la trasmissione in streaming al Teatro Quirino nel dicembre 2020, per poi approdare finalmente in presenza il 23 luglio 2022 al Teatro Rossini di Civitanova Marche. Come spettacolo teatrale lo spettacolo si è potuto quindi arricchire dei contributi del lighting design di Fabiana Piccioli e dei costumi di Shira Wise, che ne riflettevano la sua singolare specificità. Prima di tutto lo spettacolo ha però dovuto misurarsi con la sua natura coreografica, ponendo importanti interrogativi su cosa sia la danza stessa. Nella consapevolezza di quanto sia difficile formulare una valida definizione, ci lasciamo guidare da quanto visto in scena. Ad apertura di sipario, lo spettacolo si presenta già avviato in un’esplosione di suoni, colori e movimenti. I danzatori si cimentano con la tecnica classica e i suoi virtuosismi, lasciandosi andare di tanto in tanto a delle gestualità più espressive. Nel farlo dimostrano una grande sicurezza, da cui però l’individualità non riesce ad affiorare pienamente se non sotto forme alquanto velate. Piano piano si introducono nella coreografia anche dei movimenti improntati alla tecnica moderna, ma essa appare ancora piuttosto costruita ed artificiale, inducendo gli interpreti a cercare il senso della loro presenza scenica nei gruppi, nelle pose plastiche, così come nella flessuosa mobilità del corpo, nei rimandi all’erotismo e negli urli muti alla Munch. Si fa quindi strada l’idea della potenza fisica, tradotta a volte in suoni vocali che danno il là a sequenze coreografiche di gruppo. Allo stesso modo è forte l’idea di un sofferto rapporto con la corporeità, che tramite accenni di cadute, movimenti a contatto con il pavimento, singole resistenze al gruppo, lasciano finalmente intravedere nella danza l’emergere di urgenze interiori. La coreografia diviene simile a una metafora, a un linguaggio in codice afferrato dai partecipanti a questo rito collettivo. La musica si fa più dolce, i temi coreografici pur nel ripetersi acquistano ora un senso diverso. Interviene quindi il lighting design: vi sono dei cambiamenti di luce, si avvertono delle sfumature rosse in una nuvola densa scura che avvolge i danzatori. All’improvviso dei cambiamenti nel pattern coreografico lasciano spezzato lo spettatore, che si chiede oltretutto quale sia il ruolo dei costumi colorati da circensi diaghileviani e perché alla base vi sia quindi l’idea del grottesco. Ci offre un suggerimento una danzatrice che nell’incoraggiare gli applausi riflette la necessità di un vivo rapporto con il pubblico. Lo spettacolo coreografico si sostanzia in fondo nel suo essere una forma di spettacolo dal vivo. La presenza, il rapporto fisico con il proprio corpo e con quello altrui, così come il confronto con lo spettatore sono elementi primari. Qui non vi è dubbio che lo spettatore sia felice di applaudire, che nel ricongiungersi mentalmente con gli interpreti provi una grande gioia esperienziale. Lo spettacolo nella sua astrazione ha saputo coinvolgerlo, proprio perché attraverso un clima di lieve scherzo ha posto delle forti domande. Non essendoci scenografie, bensì solo quinte, l’attenzione si è spostata naturalmente sulla danza. Il movimento da casuale ha acquisito una sua drammaturgia. Il quesito non è solo cosa spinga il danzatore in scena ma cosa lo lega al pubblico. Pur di fronte ad uno spettacolo astratto, decostruito, è il pubblico a cercare una sua drammaturgia, che riconnette prima di tutto alla ricerca del senso nella propria vita. Foto Giuseppe Distefano