Roma, Teatro Argentina: “Re Lear”

Roma, Teatro Argentina
RE LEAR
di William Shakespeare
traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari
regia e interpretato da Gabriele Lavia
e conGiovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero, Lorenzo Volpe
scene Alessandro Camera

costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura
Roma, 26 novembre 2024
King Lear messo in scena al Teatro Argentina, si configura come una profonda esplorazione dell’inconscio collettivo, intrisa delle sue ombre più fosche e delle immagini archetipiche che emergono nel dramma dell’esistenza umana. Il testo shakespeariano diventa, in questo allestimento, una sorta di viaggio eroico nelle profondità dell’essere, guidato dalla mano esperta di Lavia che ne dischiude i significati psicologici e i risvolti filosofici, conferendo una lettura profondamente junghiana al tragico percorso di Lear. La traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari, in tutta la sua ricchezza e creatività, consente al dramma di articolarsi attraverso un linguaggio simbolico che riecheggia la profondità dei miti fondativi dell’umanità. Lear è la rappresentazione della discesa nell’abisso dell’inconscio, in cui il re anziano, archetipo del Vecchio Saggio degenerato, compie l’errore fatale di dividere il suo regno tra le figlie, rinunciando così a una parte fondamentale del suo Sé. Lear abdica il potere esterno, ma soprattutto abdica la sua posizione di equilibrio interiore, entrando in una dinamica di scissione che porta il Sé a frammentarsi e a cedere alla potenza distruttiva dell’Ombra. Nel rifiuto dell’amore autentico di Cordelia e nell’accoglimento delle adulazioni manipolatrici di Goneril e Regan, Lear compie il passo verso la dissoluzione, lasciando emergere il caos primordiale. Lear è però anche una storia di “perdite”. Perdita della ragione, perdita del Regno, perdita della fraternità. Non resta che vivere in una tempesta, ma questa tempesta è simbolica della mente umana. La tempesta di Lear rappresenta il caos interiore, la dissoluzione dell’ordine mentale e spirituale dell’uomo, una tempesta che coinvolge l’umanità intera, la morte dell’uomo che ha abbandonato il proprio Essere per vivere nel non-Essere. Lear, travolto dal tumulto della sua mente, incarna la sofferenza universale e la possibilità di un percorso di conoscenza e riscoperta di sé attraverso il dolore. Il mondo di Lear è profondamente malato: “it smells of mortality” (IV.vi.129). È un mondo che puzza nella sua stessa carne, in cui le relazioni più intime, come quella tra padre e figlio, sono corrotte e malate. Ogni “patto” è violato, ogni legame, ogni connessione fondamentale tra gli elementi è spezzata, la philia che li univa è ormai perduta. A regnare sono l’anomia e l’apoleia, in una crisi di ogni ordine che assume un tono apocalittico, ma di un’apocalisse radicalmente desacralizzata. La Terra ha ceduto sotto il peso della sua stessa corruzione e il Cielo non interviene a salvarla; al contrario, esso riflette la tempesta che infuria sulla terra, nella carne, nella mente e nei cuori degli uomini. Il cielo è solo un fulminare senza significato, un sabba di demoni, una tempesta che non promette alcuna redenzione, alcuna Parousia. Edgar stesso, fingendosi pazzo, dipinge la presenza di questi demoni che infestano il mondo. Il tempo in Lear è contratto in uno spasmo violento che non conduce a nulla, un tempo apocalittico disperato privo di senso ultimo. La crisi di ogni ordine si trasforma in una maschera di apocalisse, un’incontrollabile farsa carnevalesca rappresentata dal Fool, che diviene il simbolo della transizione dall’ordine tragico al grottesco assoluto . Ogni gesto, ogni azione nella straordinarietà del pathos che esprimono, assume un carattere grottesco, perché la sofferenza prodotta è senza ragione e impossibile da significare. Il grottesco diviene così l’essenza stessa di ogni atto umano quando la sofferenza non ha alcun significato: il tentativo di leggere il proprio destino nelle stelle, mentre l’universo è in balia di una tempesta senza scopo, ne è l’esempio più lampante. L’esilio di Lear e la tempesta che infuria nella brughiera sono potenti immagini archetipiche che rappresentano la dissoluzione del Vecchio Io. Questa tempesta, simbolo dell’Ombra, manifesta il caos interiore di Lear e la sua caduta nel non-Essere. Lear è l’uomo contemporaneo, svuotato del senso dell’Essere, trascinato da pulsioni inconsce e incapace di trovare un centro di gravità o affrontare le proprie profondità. Attraverso questa sofferenza è costretto a confrontarsi con una realtà più autentica. In questo processo, Lear vive la sua condizione di non-Essere, una sorta di morte simbolica che lo trascina in un confronto drammatico con il Nulla. Gabriele Lavia guida il pubblico in un viaggio teatrale che intreccia pathos e ironia, facendo vibrare la tragedia con accenti che sfiorano il grottesco e il sarcastico. La sua interpretazione, tanto possente quanto raffinata, non si limita a rappresentare il dramma dell’uomo, ma lo decompone, lasciandone emergere sfumature inaspettate. Il suo Lear è sì un re devastato, ma anche un’ombra capace di lampi quasi buffoneschi, un uomo che, nell’abisso della propria rovina, trova momenti di crudele ironia, sfidando il destino con il sorriso amaro di chi ha perso tutto. Il cast che circonda Lavia non si limita a seguire il suo carisma, ma contribuisce con una coralità densa e vibrante. Ogni interprete, con un impegno fisico ed emotivo straordinario, si fa eco e contrappunto del protagonista, dando vita a una comunità scenica che non rappresenta tanto individui, quanto archetipi, riverberi di un’umanità perduta e frammentaria. Le scene di Alessandro Camera, spoglie e ridotte a frammenti, evocano reliquie di coscienza, retaggi di un ordine mentale ormai perduto, mentre le bellissime luci di Giuseppe Filipponio orchestrano un linguaggio visivo complesso e tagliente e sempre privo di retorica. Alternando chiaroscuri penetranti e dissolvenze delicate, l’illuminazione diviene lo strumento primario di narrazione, suggerendo lo smarrimento, il caos, e infine il tentativo disperato di ritrovare un barlume di coerenza. Ogni taglio luminoso scolpisce volti e gesti, amplificando il senso di disintegrazione e ricomposizione, mentre le ombre che si espandono sembrano risucchiare il residuo di certezza rimasto. Da non perdere.