Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica “Autunno 2024”
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry CAROLINA LÓPEZ MORENO
Alfredo Germont GIOVANNI SALA
Giorgio Germont LODOVICO FILIPPO RAVIZZA
Flora Bervoix ALEKSANDRA METELEVA
Annina OLHA SMOKOLINA
Gastone ORONZO D’URSO
Barone Douphol YURII STRAKHOV
Dottore Grenvil HUIGANG LIU
Marchese d’Obigny GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Giuseppe ALESSANDRO LANZI
Un domestico di Flora NICOLÒ AYROLDI
Un commissionario LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Stefania Grazioli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Veronica Pattuelli
Luci Valerio Tiberi
Movimenti coreografici Elena Barsotti
Firenze, 24 novembre 2024
Con le sue oltre 130 rappresentazioni al Maggio Musicale Fiorentino, “La traviata” di Giuseppe Verdi torna a fare il tutto esaurito. Uno spettacolo interamente prodotto con le risorse interne del teatro, che impressiona soprattutto per le scene di Roberta Lazzeri e i costumi di Veronica Pattuelli. A onor del vero, qua e là si ritrovano vecchie conoscenze da precedenti allestimenti (tra cui la recente “Cenerentola”), ma l’impianto d’insieme funziona e restituisce con prontezza sia la sontuosa magnificenza dei quadri dispari, che il più raccolto intimismo di quelli pari. In questa cornice, il demi-monde parigino coniato da Alexandre Dumas trova espressione nei pregevoli e variegati costumi ottocenteschi, i cui cangiantismi ben alludono all’ambivalenza del sostrato borghese del tempo. Anche la regia di Stefania Grazioli gioca la sua parte, collocando un paio d’idee originali. La prima sta nel mostrare fin dal preludio la vendita degli averi di Violetta (o forse sarebbe più opportuno dire… di Marguerite), di richiamo al dramma di Dumas. La seconda, invece, nel voler identificare quella “pudica vergine” a cui il soprano sembra voler affidare Alfredo con Violetta stessa, in nome di un simbolo d’amore innocente, la camelia, destinato a non sfiorire. Nel proseguo, lo spettacolo non si discosta da soluzioni già collaudate nell’odierna tradizione rappresentativa, comprensive delle coreografie del divertissement francese (curate da Elena Barsotti) e dei fasci di luce a rimarco dell’isolamento psicologico di Violetta (realizzati da Valerio Tiberi), demandando molto del dettaglio dell’azione all’inventiva dei singoli interpreti. Curiosa e imprevedibile l’appassionata conduzione di Renato Palumbo, tanto didascalica quanto attenta al dinamismo, che culmina in autentici crescendo, all’unisono con l’abile orchestra a sua disposizione. Da una parte la sua bacchetta tende a non sovrastare le voci, dall’altra disorienta per un’anticonvenzionale scelta dei tempi, ora larghi (sin troppo su preludio e concertato di fine atto secondo), ora rapidi (esageratamente sul primo cantabile di Violetta), prendendo più volte in contropiede i cantanti stessi, ma non l’esuberante performance del coro di Lorenzo Fratini. Quanto a contrasti, il direttore non si smentisce neanche sulle scelte in partitura, prevedendo l’esecuzione integrale di entrambe le arie di Violetta, ma optando per il classico taglio nel duetto “Parigi, o cara”. In un ruolo dei più complessi, il cui inflazionamento ha generato una media esecutiva piuttosto bassa, la Violetta di Carolina López Moreno riesce solamente a metà. È indiscusso che il soprano boliviano-albanese sia dotato di un’emissione estremamente limpida, dalla proiezione vellutata sui centri e di singolare morbidezza sui piano e che la giovane interprete vanti qualità attoriali di tutto rispetto, ma la cantante non sembra ad oggi totalmente a suo agio nel tradurre in voce la forza combattivo-drammatica della protagonista. Con questa premessa, se gli accenti della cortigiana affermata del primo atto riescono con efficacia e l’insinuarsi del dubbio d’amor viene espresso con un cantabile di buona levigatura cromatica, il subitaneo sfogo nel “Sempre libera” soffre di un registro acuto un po’ ristretto, che non passa indenne nonostante le oculate semplificazioni. La tempra lirica accorre in suo aiuto dal secondo atto, dove il soprano staglia messe di voce squillanti e intere frasi incisivamente sostenute da una consona gestione dei fiati, ma ancora si rifugia in piano discutibili quando si tratta di approcciare acuti più esposti o laddove le scene d’insieme richiederebbero maggiore spinta. Anche nel terzo atto non si può dire che non ci sia stato un grande impegno interpretativo, ma si augura che con l’esperienza la seconda strofa dell’“Addio, del passato” non venga più eseguita con la stessa cromìa della prima e che il pathos di questa grande protagonista possa passare in voce con maggiore pregnanza. La capeggiava il Germont padre di Lodovico Filippo Ravizza, baritono dall’emissione sempre più rotonda al salire di registro, intenzionato a risolvere il personaggio con la calma ieratica di chi, per gerarchia d’estrazione, sa di vincere. La dialettica dell’autoritaria figura paterna conta già su un fraseggio a tratti personalizzato e su alcuni smorzamenti d’effetto, sebbene ci sia margine per ampliare il ventaglio cromatico e di accenti del ruolo e per variegare gli effetti coloristici dell’infida aria di Provenza. Più di sfondo l’Alfredo di Giovanni Sala, il cui timbro poco compatto e la tendenza a prendere gli acuti dal basso dà la costante sensazione di suoni calanti e tende a rendere meno produttive le intenzioni drammaturgiche e di fraseggio. Tra i secondari dominava il timbro cordiale dell’Annina di Olha Smokolina e quello brunito della voluttuosa Flora di Aleksandra Meteleva, la quale teneva testa con facilità all’impacciato marchese di Gonzalo Godoy Sepúlveda. Convincenti anche gli interventi di Alessandro Lanzi (Giuseppe particolarmente a fuoco), Lisandro Guinis (serio commissionario) e Oronzo D’Urso (ilare Gastone), mentre un po’ avventato è parso il barone di Yurii Strakhov. Chiudevano il cast il chiaro dottor Grenvil di Huigang Liu e il puntuale domestico di Flora di Nicolò Ayroldi. A conclusione, il pubblico riserva il suo massimo entusiasmo per la protagonista, pur mantenendosi generoso nell’apprezzamento verso tutti gli altri. Foto Michele Monasta