Venezia, Teatro La Fenice: “Otello”di Verdi apre la nuova stagione

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti, Libretto di Arrigo Boito dalla tragedia “Othello” di William Shakespeare.

Musica di Giuseppe Verdi
Otello FRANCESCO MELI
Jago LUCA MICHELETTI
Cassio FRANCESCO MARSIGLIA
Roderigo ENRICO CASARI
Lodovico FRANCESCO MILANESE
Montano WILLIAM CORRÒ
Un araldo ANTONIO CASAGRANDE
Desdemona KARAH SON
Emilia ANNA MALAVASI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani

Maestro del coro Diana D’Alessio
Regia Fabio Ceresa

Scene Massimo Checchetto
Costumi Claudia Pernigotti
Light designer Fabio Barettin
Video designer Sergio Metalli
Movimenti coreografici Mattia Agatiello
Nuovo allestimento Teatro La Fenice

Venezia, 23 novembre 2024
Il sodalizio tra l’ultimo Verdi e Arrigo Boito rappresentò l’intesa prodigiosa tra due spiriti eletti – che peraltro, in passato, si erano, a dir poco, detestati –, dando origine a due capolavori assoluti, quali Otello e Falstaff. Quanto al primo titolo, il libretto di Boito è un capolavoro di stile, grazie a una raffinata ricerca metrica, volta ad assecondare le esigenze espressive del compositore – ad esempio utilizza il decasillabo, il verso tipico dei grandi cori verdiani – o a riprodurre la metrica shakespeariana, ricorrendo, nel duetto del primo atto, all’endecasillabo, a riprodurre il pentametro giambico presente nel testo inglese originale. Dunque, in Otello, l’apporto di Boito è fondamentale, senza nulla togliere, ovviamente, al ruolo precipuo del compositore. Da questa provvidenziale sinergia nasce quella meraviglia di compenetrazione tra parola e musica, quel prezioso distillato di tutta la storia artistica del genio bussetano, che è la sua penultima opera, protesa verso il moderno dramma musicale e, al tempo stesso, ancora legata alla tradizione dell’opera romantica italiana. Grande, dunque, era l’attesa, da parte del pubblico, del ritorno in laguna di quest’opera, punto d’arrivo del teatro musicale verdiano serio, presentata in un nuovo allestimento, in apertura della nuova Stagione Lirica. Un’attesa resa ancora più intrigante poiché questa ripresa segna il debutto nel ruolo di protagonista di Francesco Meli, tenore lirico dal timbro luminoso e pregnante, già apprezzato dal pubblico veneziano in precedenti stagioni. Un artista di indubbio talento e solida professionalità, che ha osato cimentarsi in un ruolo, che ha scoraggiato cantanti del calibro di Caruso, Gigli, Lauri Volpi, Corelli, confrontandosi con il gigantesco Mario Del Monaco e l’intramontabile Placido Domingo. Consapevole di non possedere un peso vocale paragonabile a quello di altri illustri predecessori, il generoso Meli ha cercato di sfruttare la propria vocalità, non eroica ma pur sempre virile, per delineare un personaggio tutto sommato credibile, lontano da certi eccessi “barbarici” o “selvaggi”, attenendosi alle indicazioni di Verdi e cercando un equilibrio tra il versante istintuale e quello raziocinante del Moro. Un’impostazione in linea con la scelta registica di non tingere di “color cioccolata” la faccia del protagonista. Se in “Esultate!”come nel finale dell’atto secondo il peso vocale non è del tutto adeguato – anche se la voce riesce in generale a “passare” –, il tenore genovese si impone per finezza interpretativa e fraseggio scolpito in “Dio! Mi potevi scagliar” e “Niun mi tema”, superando nel complesso la prova più che dignitosamente. Pienamente nella parte del perfido Jago – il cui nome doveva costituire inizialmente il titolo dell’opera – Luca Micheletti, che ha sfoggiato una voce ben timbrata, suggestiva dizione e adeguata presenza scenica, segnalandosi grazie alla sua duttilità interpretativa nel “Credo” come in “Era la notte”. Ragguardevole complessivamente la prestazione della coreana Karah Son, che ha trovato via via una cifra interpretativa sempre più consona alla dolce quanto sfortunata Desdemona, segnalandosi nei momenti più intimi e dolci: “Dio ti giocondi, o sposo”, la Canzone del salice, la struggente ‘“Ave Maria”. Tra gli altri ruoli si sono messi in luce Anna Malavasi, un’ Emilia particolarmente decisa. Adeguata professionalità hanno dimostrato Francesco Marsiglia (Cassio), Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano). Elegante e musicalissima la prestazione del Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani e quella dei Piccoli Cantori Veneziani, guidati da Diana D’Alessio. Sublime la direzione di Chung – festeggiatissimo dal pubblico –, che ha saputo guidare l’orchestra – sempre in perfetta sintonia col gesto direttoriale –, in una straordinaria esecuzione, caratterizzata dall’equilibrio a livello dinamico ed agogico, dalla ricchezza di sfumature, dalla particolare cura del suono, sempre di cristallina nitidezza. Nonostante l’atto veneziano, presente nella tragedia shakespeariana, sia stato espunto da Boito, la Città dei Dogi domina nell’efficace impianto scenografico, ideato da Fabio Ceresa, che si nutre di costumi grandiosi e maestose architetture, ma che più che descrivere vuole suggerire attraverso una rappresentazione astratta, quasi onirica, cosicché ogni immagine acquisita la dignità di un simbolo. La scena immagina un palazzo astratto che emerge dall’acqua, evocando il legame tra la città e il mare, centralissimo, nella drammaturgia di Otello: dalle onde della laguna si innalza un’architettura splendente d’oro, una grande trifora che nei suoi decori si ispira alla Basilica di San Marco. Analogamente, all’opulenza dei mosaici marciani rimandano i costumi, contribuendo a quel dilagare di luce dorata – espressione del gusto bizantino –, che nell’allestimento si accompagna all’oscuro abisso del mare. Un dualismo, che si ritrova anche tra i personaggi. Da una parte, abbiamo Jago, dominato dagli istinti più bassi – odio, invidia, gelosia –, evocati sul palcoscenico da un’Idra dalle tante teste. Dalla parte opposta, vi è Desdemona, simbolo dell’umana aspirazione alle stelle, a riscattarsi dalla condizione animale e, vestendosi d’oro, rivelare la propria natura angelica, guidata dal leone alato, simbolo della città di Venezia. Otello si trova sospeso tra queste due dimensioni: si proietta verso la luce, cercando di opporsi alle tenebre che lo stanno per avvolgere. La lotta della nave contro le onde nella tempesta iniziale è una meravigliosa metafora di questa eterna sfida contro se stesso. Se nell’“Esultate” appare un redentore che dona al mondo la salvezza, nel corso della vicenda perde gradatamente tutte le sue connotazioni messianiche, rivelando nel quarto atto l’oscurità che si cela sotto l’oro splendente della sua corazza. Otto muniti di applausi hanno salutato uno spettacolo trionfale.