Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e di Balletto 2024-2025
“LA FORZA DEL DESTINO”
Opera in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave e Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il marchese di Calatrava FABRIZIO BEGGI
Donna Leonora ANNA NETREBKO
Don Carlo di Vargas LUDOVIC TÉZIER
Don Alvaro LUCIANO GANCI
Preziosilla VASILISA BERZHANSKAYA
Padre guardiano ALEXANDER VINOGRADOV
Fra Melitone MARCO FILIPPO ROMANO
Curra MARCELA RAHAL
Un alcade HUANHONG LI
Mastro Trabuco CARLO BOSI
Un chirurgo XHIELDO HYSENI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Coreografia Michela Lucenti
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 22 dicembre 2024
«In questo romanzo d’appendice scritto da un genio non c’è proprio nulla da buttar via. In casi simili è l’esecuzione che decide». Così Eugenio Montale nel 1965, recensendo una celebre inaugurazione della stagione scaligera con La forza del destino. Esistono probabilmente due modalità principali di accostarsi a quest’opera: ricostruire, attraverso il dramma e la musica, un presunto carattere unitario della narrazione; oppure permettere che la vicenda si dispieghi in una serie di quadri “caratteristici”, come capitoli di un romanzo popolare. Difficilmente si potrebbe profilare una mediazione tra queste vie di lettura opposte, ma certo non stupisce che Riccardo Chailly abbia optato per la seconda (e coerentemente, come aveva già fatto nel Don Carlo dell’anno scorso). Grazie alla sua concertazione, infatti, molti blocchi della partitura brillano di qualità specifiche: l’esitazione affannosa della sinfonia, il nervosismo di fondo del duetto tra Leonora e il Padre Guardiano, l’enfasi dell’ottavino che accompagna Preziosilla, l’insistenza reboante di ottoni e percussioni nel numero comico di Fra Melitone all’inizio del IV; una ricerca inesausta di colori che non disdegna di indagare e valorizzare anche gli effetti più popolari. All’impeccabile prova dell’Orchestra e del Coro della Scala, il secondo preparato da Alberto Malazzi, si aggiunge il contributo della compagnia vocale: Anna Netrebko produce un entusiasmo granitico e crescente, con ovazione finale, ma anche tutti gli altri cantanti sono molto festeggiati (in particolare Ludovic Tézier). A onor del vero, la tessitura di Leonora non si adatta così bene alla voce di Netrebko come lo fu quella di Elisabetta esattamente un anno fa: il controllo del registro basso non è sempre perfetto, per esempio; ma i dubbi nascono dall’interpretazione del personaggio, perché la sua Leonora non sembra partecipare troppo delle sventure, visto che non abbandona mai un’espressività forte e imperiosa, neppure quando implora pietà. Al contrario, pur forte di una tecnica straordinaria, il soprano si permette alcune sprezzature un po’ veristiche (nel duetto con il Padre Guardiano, per esempio), che stridono con la linea di canto usuale. Brian Jadge, il tenore titolare della recita, ha cancellato la sua partecipazione per motivi personali; sostiene quindi la parte di Don Alvaro l’interprete della seconda compagnia, Luciano Ganci, di cui prima dell’inizio dell’opera si annuncia una “lieve indisposizione”. La voce ha una cavata importante ma è di timbro alquanto chiaro, e non sembra affatto adatta alla parte perché priva di squillo, inflessione e accenti drammatici; per questo Ganci è costretto a forzare l’emissione, con acuti quasi sempre fissi, che cerca di compensare con un fraseggio accurato. Tézier, invece, è del tutto a suo agio nella parte di Don Carlo, che domina con sicurezza ed eleganza (a parte qualche nota acuta un poco disarmonica, forse per usura della voce p stanchezza). Credibilissima e spigliata la Preziosilla di Vasilisa Berzhanskaya, sebbene questo tipo di vocalità sia lontano dal suo repertorio abituale: è un elemento di originalità della compagnia, che il pubblico apprezza moltissimo. Alexander Vinogradov è un Padre Guardiano eccellente, con il giusto carattere ieratico che si richiede a questa parte di basso. Irresistibile il Fra Melitone del baritono Marco Filippo Romano (abilissimo nell’evitare qualunque tipo di comicità estraneo alla musica) e godibilissimo il Mastro Trabuco del tenore Carlo Bosi, un veterano all’altezza della migliore tradizione dei comprimari scaligeri. Corretti i bassi Fabrizio Beggi (il Marchese di Calatrava) e Huanhong Li (un Alcade). Dello spettacolo di Leo Muscato, basato sulla sovrapposizione tra l’azione dell’opera di Verdi e le trincee della Prima Guerra Mondiale a cui si approda nel III atto, si è detto e scritto molto (soprattutto sulla base di impressioni soggettive). Tre elementi di questa regia, in ogni caso, vanno menzionati con chiarezza, anche perché il primo di essi non si allinea all’orientamento analitico di Chailly: uno è la convinzione che la vicenda del melodramma debba (non possa, come se si trattasse di un capriccio personale) essere ricondotta a un più ampio e organico contesto, di cui costituisce una “narrazione particolare” (scrive Muscato nel programma di sala che «la tragedia dei protagonisti è immersa in un mondo in continuo movimento, popolato da soldati, pellegrini e viaggiatori»); l’altro è il ricorso alla Storia; l’ultimo (il più raro oggi) è l’attenzione all’aspetto religioso che scaturisce dal dissidio suggerito dal titolo (il destino o Dio? Il caos o la salvezza?). Invece di baloccarsi con l’estetica del primo Novecento europeo e la sua antinomia rispetto all’opera «del rataplan, del “suon del tamburo” e delle nacchere» (ancora Montale nella recensione del 1965), bisognerebbe riflettere sul perché Muscato, coadiuvato da Federica Parolini (scene) e Silvia Aymonino (costumi) abbia fatto ricorso a un immaginario così poderoso per tradurre visualmente l’opera verdiana. Il Manzoni teorico del romanzo storico fornirebbe certamente la risposta più efficace: perché gli archetipi letterari, in quanto prodotti della finzione, aspirano alla verità della Storia, e possono vivere soltanto nelle dimensioni di quest’ultima. Si sono sottolineati il senso del teatro, la funzionalità artigianale, l’expertise comunicativa dello spettacolo scaligero; in definitiva, però, quello che importa davvero ribadire è che Muscato e la sua équipe abbiano avuto il coraggio di ritornare agli archetipi, prescindendo da qualunque idealismo tecnologico, per rappresentare e additare le infinite e perenni forme della «mortal jattura». Foto Brescia & Amisano © Teatro alla Scala